Jump to content
Piano Concerto - Forum pianoforte

Béla Bartók a settant'anni dalla sua scomparsa


danielescarpetti
 Share

Recommended Posts

Settant’anni fa scomparse – esattamente il 25 settembre – Béla Bartók, compositore ungherese ascrivibile a quel fenomeno musicale dell’Ottocento che solitamente si definisce delle “scuole nazionali” e che coinvolse quei paesi europei che, fino a quel momento, erano rimasti sostanzialmente ai margini della storia della musica occidentale, principalmente incentrata sull’Italia, la Germania-Austria e la Francia. Se Chopin fu l’antesignano di questo fenomeno, Bartók ne fu probabilmente l’ultimo autorevolissimo esponente ma, come per il grandissimo compositore polacco, anche per lui sarebbe estremamente riduttivo considerare la sua musica, la sua arte, esclusivamente ascrivibile a questo fenomeno.

Bartók è certamente uno dei compositori da me più amati ed è per questo che sono qui a proporne un percorso musicale che toccherà quelli che si possono considerare fra i suoi più grandi capolavori e, prima di iniziare lì, dove finisce un saggio che Massimo Mila gli dedicò, nel 1961, debbo constatare che, purtroppo, nonostante da quei tempi siano passati ormai 54 anni, in Italia, gli scritti a lui dedicati siano veramente, a dir poco, esigui e che la sua giusta considerazione e fama è relegata a pochissime sue musiche.

Conclude dunque Massimo Mila: «(…) la grandezza di questo artista non sta tanto nell’aver aperto ad altri una via che essi possano seguire, quanto nell’avere trovato per sé, pur partecipando a tutte le tendenze e a tutti i tentativi della musica moderna, una soluzione artisticamente valida ai problemi del linguaggio musicale: soluzione che non si potrà mai identificare con nessuno dei due poli principali tra i quali si è svolta la sua vicenda musicale (…) neoclassicismo tonale da una parte, e l’espressionismo dodecafonico dall’altra. Espressionista ma non dodecafonico, tonale ma non classico.(…)» (Massimo Mila: L’arte di Béla Bartók. Bur saggi)

 

La mia prima proposta di ascolto è la Rapsodia per pianoforte Opus 1 del 1904.

 

Come nel caso di Beethoven, il numero di catalogo, non deve trarre in inganno: il compositore ungherese aveva già composto altro ma, è con quest’opera che egli raggiunse la «perfezione del periodo nazionalistico». Le sue radici musicali traevano linfa da Listz, Wagner e Richard Strauss ma il suo amore, mai rinnegato e più profondo, andava alla musica di Beethoven e Schumann.

Il Bartók di quest’opera non conosceva ancora «l’autentico canto popolare delle campagne ungheresi con la sua saporita rozzezza dialettale», questo avvenne più avanti, ma raggiunse in questa musica un grado di perfezione, non certo eguagliabile a quello che avvenne in seguito, ma che merita comunque un accurato e rispettoso ascolto.

Buon ascolto dunque a chi lo farà e … alla prossima puntata.

  • Like 2
Link to comment
Condividi su altri siti

Per curiosità vi riporto quanto ho scritto nelle note al catalogo di Bela Bartok sul mio sito:

 

Béla Bartók ha tentato più volte nel corso della sua vita di sistemare la classificazione delle sue composizioni riprendendo curiosamente, ogni volta la numerazione da uno e creando non poca confusione.

Le composizioni numerate si possono dividere in tre distinti gruppi che per comodità di consultazione, abbiamo contraddistinti con diversi colori sui cataloghi:


1890 - 1894 dal numero op. 1 al numero op. 31

1894 - 1898 dal numero op. 1 al numero op. 21

1904 - 1924 dal numero op. 1 al numero op. 21


Dopo il 1924 Bartók ha cessato definitivamente di numerare i suoi lavori.

 

Non so perchè ma questa interessante informazione viene normalmente ignorata. Per essere precisi nel caso della Rapsodia per pianoforte Opus 1 bisognerebbe precisare "Terza serie" in quanto esistono 3 op. 1

  • Valzer per pianoforte op. 1 (1890)
  • Prima sonata in sol minore per pianoforte op. 1 (1894)
  • Rapsodia per pianoforte op. 1 (1904)
  • Like 1
Link to comment
Condividi su altri siti

Grazie Daniele per questa iniziativa su un grande compositore del Novecento che attualmente mi sembra un po' dimenticato.

Grazie anche a Terenzio per l'informazione utile sulla numerazione. Mi pare si possa supporre che queste varie riprese dal numero 1 siano come "nuovi inizi" della attività conpositiva.

  • Like 1
Link to comment
Condividi su altri siti

«(…) Ho riconosciuto che le canzoni ungheresi ritenute erroneamente popolari e che in realtà erano canzoni d’autore (…), non offrivano molto d’interesse. Così nel 1905 ho cominciato ad indagare la musica ungherese contadina, fino ad allora quasi del tutto sconosciuta. In questo campo, a mia grande fortuna ho conosciuto Zoltan Kodáli, il quale, grazie alla sua chiaroveggenza e il suo giudizio, mi ha aiutato in tutti i settori della musica con parecchi avvisi e consigli d’inestimabile valore.(…)».

Bartók cominciò a frequentare, pastori, porcari e contadini e, tramite loro, scoprì quel retroterra culturale fatto di antiche canzoni ma anche di pesante miseria contemporanea: «(…) Lo studio di tutta questa musica contadina era per me di decisiva importanza, perché esso m’ha reso possibile la liberazione dalla tirannia del sistema maggiore e minore fino allora in vigore. Infatti la più grande parte, e la più pregevole, del materiale melodico raccolto si basava sugli antichi modi ecclesiastici o greci, o perfino su scale primitive (e precisamente pentatoniche); inoltre era irta delle formazioni ritmiche più libere e più svariate, con cambiamenti di ritmo per l’esecuzione ora il tempo rubato ora il tempo giusto. Mi resi conto allora che i modi antichi ed ormai fuori uso nella nostra musica d’autore non hanno perduto nulla della loro vitalità. Il loro reimpiego ha permesso combinazioni armoniche di tipo nuovo. L’impiego siffatto della scala diatonica ha condotto alla liberazione del rigido esclusivismo della scala maggiore e minore ed ebbe per ultima conseguenza la possibilità di impiegare liberamente e indipendentemente tutti i dodici suoni della scala cromatica.(…)».  Poi anche: «(…) Io sono convinto che ognuna delle nostre musiche popolari (…) è un vero modello della più alta perfezione artistica. Nel campo delle forme più semplici quelle melodie sono per me capolavori nello stesso modo in cui nelle forme più grandi lo sono una Fuga di Bach (…)».

In questo clima nel 1908 nacquero le:

 14 Bagatelle per pianoforte Opus 6,

 

veri e propri punti di rottura violenta e polemica verso quel modo musicale da cui, fino a quel momento aveva tratto la linfa: la tradizione ottocentesca. Non solo le canzoni veramente popolari ungheresi, irrompono nel suo mondo compositivo ma anche l’Espressionismo di Debussy , di Ravel e Schönberg e, ovviamente Sravinskij.

«(…) Allorquando, su incitamento di Kódaly, conobbi e comincia a studiare le composizioni di Debussy, sempre nel 1907, m’accorsi stupefatto che pure nelle sue melodie hanno una parte importante motivi pentatonici corrispondente a quelli della nostra musica popolare. Dobbiamo certamente attribuirli all’influsso pure d’una musica popolare dell’Europa orientale, probabilmente a quella russa. Nelle composizioni di Igor Stravinskij si avvertono tendenze analoghe; sembra quindi che la nostra epoca mostri correnti identiche anche nei territori geograficamente più lontani l’uni dagli altri: il rinfrescamento della musica d’autore con quegli elementi di quella musica contadina che le composizioni degli ultimi secoli hanno lasciata intatta. (…)».

 

Buon ascolto e … alla prossima!

  • Like 1
Link to comment
Condividi su altri siti

Si potrebbe dire che i Quartetti per archi stettero a Bartók in maniera esattamente contraria a come le Sonate per pianoforte stettero a Beethoven. Infatti se  per Beethoven le Sonate costituirono un percorso pioneristico di ricerca nell’ambito musicale prima di lanciarsi in altri generi, per Bartók i Quartetti costituirono il riepilogo, in quanto posero quasi sempre la parola fine ad un suo modo di comporre.

Detto questo penso sia innegabile che come per il genio di Bonn, il genere quartettistico, fu fra le sue punte di diamante, anche per Bartók, essi sono imprescindibili in quanto costituiscono la massima vetta di questo genere nel Novecento.

 

Il primo fu il Quartetto Opus 7 composto a partire dal 1908 e terminato il 27 gennaio 1909.

 

Questo Quartetto rappresentò per Bartók il riepilogo di quello che fu il periodo giovanile. In esso il compositore si richiamò al contrappunto ma, assai significativo e importante, nell’ambito non solo della sua storia musicale ma anche, più in generale, della storia della musica, fu il fatto che non al massimo esponente contrappuntistico della storia: Johann Sebastian Bach egli si rivolse nel comporlo ma alla scrittura quartettistica dell’ultimo Beethoven.

È importante questo perché dopo Beethoven, nessuno dei compositori che seguì, riuscì a comprendere quello che fu il suo estremo messaggio: tutti si riferirono ai quartetti dell’Opus 59 e solo Bartók per primo, esattamente 72 anni dopo, seppe riprendere lì, dove Beethoven lasciò.

Il Primo Quartetto dell’ungherese ha una chiara assonanza con la polifonia «libera fondata sulla variazione» di marca strettamente beethoveniana e questo perché: «(…) Per stabilire il proprio stile polifonico Bartók non si rivolge artificiosamente a Bach (…) come farà ben presto la tendenza neoclassica, (…). Bartók non ama mascherarsi e perciò cerca di riallacciarsi direttamente, senza soluzione di continuità alle ultime esperienze di polifonia strumentale che siano nancora interiormente significanti, cariche di una portata espressiva non estinta, non ancora definitivamente catalogata negli archivi storici dello stile musicale. La polifonia dell’ultimo Beethoven sarà il trampolino da cui Bartók muoverà alla costituzione d’uno dei suoi contrassegni stilistici principali: quel contrappunto che chiameremo germinale o auto integrativo, fondato sul lento volgersi di cellule musicali, simile al formicolio delle particelle costitutive della materia.(…)» (Massimo Mila: L’arte di Béla Bartók. Bur saggi)

Fin dalle prime note il richiamo è assai chiaro l’Adagio ma non troppo del Quartetto in do#- Opus 131 ma anche il Molto Adagio (Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico) dell’Opus 132 e, in quest’ultimo caso la cosa potrebbe non essere affatto casuale, visto che la composizione del Primo Quartetto avvenne proprio dopo la convalescenza e ripresa da una grave malattia.

«(…) La scrittura strumentale mostra alcuni primi e timidi esperimenti di una via che Bartók percorrerà fino in fondo: l’esplorazione del rumore e la creazione del suono, di un timbro, cioè, diverso dalla tradizionale voce quartettistica attraverso, l’impiego di tutte le risorse esecutive degli strumenti ad arco (alternanza di staccato e legato, di pizzicato, di glissandi, tremoli, esecuzione sul ponticello, ecc.). Sarà questa una delle vie maestre dell’arte di Bartók: la creazione del suono messa alla stessa stregua dell’invenzione melodica, armonica e ritmica.» (Massimo Mila: L’arte di Béla Bartók. Bur saggi)

 

 

Buon ascolto e … alla prossima.

  • Like 1
Link to comment
Condividi su altri siti

Ottimi gli interventi di Daniele, integrando di poco quanto già detto interessante notare che da un inizio squisitamente pianistico (pianista dal 1909 al 1923) poi Bartok si dedica alla etnomusicologia e alla composizione.

Come tanti nel 1940, per motivi politici, emigra negli Stati Uniti dove continua ad esercitare la sua attività musicale fino alla morte. Come Stravinskj, secondo me la lontananza rafforza il legame alla propria patria…forse in un epoca in cui contava ancora (riflettevo sui giorni d’oggi).

 

Per me è interessante e mirabile la sintesi tra diversi filoni compositivi desunti dalla musica colta e da quella popolare, una delle tre principali tendenze del primo novecento per uscire dai binari della tonalità. A tal proposito le composizioni che presentano influssi folklorici sono:

  1. La suite n. 2 per orchestra (1905-1907)
  2. I canti popolari ungheresi per voce e pianoforte (1906)
  3. Allegro barbaro per pianoforte (1911)
  4. La suite per pianoforte (1916)
  5. I sei volumi “Microkosmos” (1926-1939) sono contemporaneamente un’opera didattica e artistica dove l’impiego del canto popolare come modello di una nuova musica che dovrà avere anche un ruolo morale e civile aperto quindi al mondo.

 

Anche se già citato il buon Kodàly, trovo interessante questa collaborazione in quanto proprio grazie ai consigli di Kodàly, Bartok ha la possibilità di conoscere lo stile di Debussy che ben presto sarà presente nelle composizioni “Due ritratti” per orchestra (1907-1909) e nell’opera “Il castello del principe Barbablù” (1911), lavoro teatrale basato su una traduzione in lingua ungherese di un testo di Maeterlink che racconta, con ricchi simbolismi testuali e musicali, di Giuditta, sposa del crudele Barbablù che si avvicina alla morte aprendo sette porte chiuse. L’opera accosta una scrittura vocale legata alla tradizione ungherese fusa con gli elementi musicali della tradizione occidentale. Nelle sue composizioni Bartok si avvicina pure all’espressionismo europeo con l’uso di un linguaggio armonico molto avanzato, basato sulla politonalità e l’uso di quarte, triadi con settime maggiori e l’inserimento di inconsueti effetti sonori.

Ecco che lo schema tonale spesso viene usato con il “percorso polare” in cui a metà di un brano o di un movimento si raggiunge la tonalità più lontana rispetto a quella d’impianto per poi ritornare all’ambito iniziale. Successivamente sia il primo concerto per pianoforte e orchestra che la “Sonata” per pianoforte del (1926) lo avvicinano alla tendenza neoclassica.

 

Mi piace ricordare le composizioni principali dell’amico Bela (so che molte sono già state citate)…ma ha il suo fascino leggerle di fila:

  1. Sei quartetti per archi (1908-1939)
  2. Il Mandarino meraviglioso (1918-1919) balletto per orchestra.
  3. Otto improvvisazioni su canti di contadini ungheresi per pianoforte (1920)
  4. Prima sonata per violino e pianoforte (1921)
  5. Tanzsuite per orchestra (1923)
  6. Cantata profana (1930) per voci soliste, doppio coro e orchestra.
  7. Musica per archi.celesta e percussioni (1936)
  8. Concerto per violino e orchestra (1937-1938)
  9. Concerto per orchestra (1944)
  10. Concerto per pianoforte e orchestra (1945) incompiuto.

 

… dicevamo dell’avvicinamento di Bartok e Kodaly, interessante anche  perché contribuiscono allo sviluppo dell’ etnomusicologia che, grazie anche alla scoperta del fonografo,  raccolsero e catalogarono non solo i canti ma anche tutti quegli elementi collegati (scientificamente) agli usi e costumi (vedi l’opera “Corpus Musicae Popularis Hungaricae”). Notare che le fonti originali “catturate” sono poi state rielaborate dalle varie scuole.

 

 

E come accennava Daniele, questo link fra etnomusicologia e romanticismo è molto forte grazie alle scuole nazionali; due grandi esempi sono proprio quella Russa e quella Ungherese. Il cerchio si chiude in quanto le stesse erano votate a valorizzare le tradizioni popolari intese come appartenenza ad un certo popolo caratterizzato da stessa:

  • Lingua
  • Usi
  • Costumi
  • Canti
  • Danze

 

@nicolasfredda: io non percepisco questa dimenticanza, considera che nei corsi di storia della musica, in particolare alla prima metà del ‘900, Bartok è abbastanza una fissa, sempre affiancato a Schoenberg e Stravinskj; inoltre, come ricordava il buon Antares, qualsiasi buon pianista dovrebbe essere passato dal Microkosmos. Penso che molti abbiano ascoltato la Musica per archi,.celesta e percussioni. Probabilmente molti profani non ne conoscono l’autore e il titolo, ma di sicuro hanno avuto occasioni.

 

In generale, come per tutti i compositori i del ‘900 (non parliamo dei compositori del nostro secolo), ci sono meno occasioni di essere proposti al grande pubblico che ha una cultura squisitamente tonale e per capirci: terzo barocco, classicismo e romanticismo.

 

Detto tutto ciò però come ascolto vorrei proporre la tanto amata (da me, ovvio) sonata per due pianoforti e percussioni, purtroppo non sono in condizioni di postare un link, se qualcuno volesse provvedere, mi sarebbe molto d’aiuto :)

 

 

EDIT

Grazie Micamahler per il link :)

https://www.youtube.com/watch?v=8ZjJtJAXPBE

Modificato da Frank
  • Like 2
Link to comment
Condividi su altri siti

Grazie Frank per il tuo intervento su cui contavo molto sinceramente.

Se ricordi bene, a Milano, durante una conversazione, abbiamo citato Bartòk ed è lì che è iniziata a maturare in me la voglia di parlare di questo compositore che, come ho già detto, sento molto vicino alle mie sensibilità.

Di molte delle opere che citi non mancherò, via via, di parlare perché sono indiscutibilmente i capolavori di questo compositore.

 

Grazie a tutti Voi!

  • Like 1
Link to comment
Condividi su altri siti

È inevitabile: l’apparire sulla scena di un’arte nuova porta come ovvia conseguenza la fine della vecchia. Nacquero così in tutta Europa delle vere e proprie società tese ad affermare queste nuove tendenze in contrapposizione delle vecchie guardie.

Bartók fondò assieme a Kodáli nel suo paese la Nuova Unione di Musica Ungherese che però non riuscì ad affermare la musica nuova e ad agevolarne l’esecuzione. Fu in questo periodo che nacque quella breve e sensazionale composizione per pianoforte che prese il nome di

 

Allegro barbaro

 

che scandalizzò la capitale ungherese a cominciare proprio dal titolo che sembrò quasi un rifiuto della civiltà. Quello che sorprese poi gli ascoltatori fu la sistematicità di un’azione che mai si ferma.

Bartók lo intese come primitivo e infatti esso è basato quasi unicamente su quello che è l’elemento primario della musica: il ritmo e, inoltre i furore percussivo del suono fugge le scale tonali moderne per tornare a quelle arcaiche. Per circa tre minuti il pianoforte è trasformato in un doppio strumento a percussione: oltre all’ovvio picchiare dei martelletti sulle corde, si aggiunge quello artificiale delle dita del pianista sui tasti. 

Link to comment
Condividi su altri siti

Ci teneva parecchio Bartók ad evidenziare tutte le cose che lo facevano assomigliare al suo compositore preferito: Beethoven. Fra queste sicuramente ci fu il fatto che entrambi furono prevalentemente compositori strumentali e che entrambi composero un’unica opera lirica che non è annoverata fra quanto di più importante uscito dalla loro penna ma che, ciò nonostante, per il significato intrinseco è assai preziosa.

 

“Il castello del principe Barbablù” opera in un atto Opus 11

 

Composta nel 1911, andò in scena solo però nel 1918. Terenzio nel suo sito ci fornisce informazioni molto importanti e anche il testo.

Dunque perché è assai preziosa quest’opera nel suo significato intrinseco?

Già la scelta del soggetto lo fu. Il compositore si fece elaborare la trama dall’amico Béla Balász che fu tratta da un poema di Maurice Maeterlinck: Ariane et Barbe-Bleue che a sua volta s’ispirò alla famosa fiaba di Charles Perrault. Già nel 1907, il compositore Paul Dukas, compose una sua opera lirica, traendo spunto da questo poema ma, fra le due opere non ci sono praticamente assonanze di nessun tipo.

In realtà l’opera di Bartók trova assonanza più con Pelleas et Mélisande, opera di Claude Debussy del 1902, tratta anch’essa da un altro poema di Maurice Maeterlinck: non solo il proposito del compositore ungherese fu quello di creare un equivalente, nella sua lingua, della declamazione melodica perfetta creata dal francese nella sua ma il giudizio che Giuditta esprime fin dall’inizio, è lo stesso lamento di Mélisande e le due storie si svolgono entrambe nelle stanze di un castello e se Mélisande è dispiaciuta che in esso non vi è luce, non ci sono aperture né finestre, Giuditta deve constatare che i muri del castello di Barbablù sono grossi e opachi ed impediscono alla luce di filtrare, privi di finestre e presentano una serie di sette porte chiuse ermeticamente e si può dire che entrambe queste dimore discendono dalla casa de La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe: in tutte queste opere, le case e il castello di Barbablù hanno le caratteristiche di un tomba per tutti i suoi abitanti.

Il castello ha dei veri e propri tratti umani. Le pareti sono umide ma non di acqua, di sudore e sembrano piangere, aspetti vegetali, animali e anche umani si sovrappongono: sono tutte le sofferenze a cui hanno dovuto assistere. Quando viene aperta la prima porta, con orrore si entra nella camera delle torture e i muri trasudano rivoli di sangue e la musica ce la presenta con un trillo di violini sotto un grido stridulo degli ottoni e la dissonanza è affidata alle trombe con sordina. Il sangue è poi presente anche all’apertura della seconda porta che dà sulla stanza delle armi: fanfara di corni, trombe, oboi e clarinetti e ai corni è affidata questa volta la dissonanza del sangue. La terza stanza è quella del tesoro, un tesoro pieno di sangue: accordo delle trombe e tremolo d’archi mentre la dissonanza del sangue si muove irrequieta nei flauti, oboi e clarinetti. La quarta porta dà su un giardino magico le cui rose hanno il gambo insanguinato e la terra pure è insanguinata: gli archi vibrano e tremano. La quinta porta dà su un terrazzo dove si possono vedere tutti i terreni di Barbablù dove «le nuvole gettano ombre insanguinate». I terreni sono descritti musicalmente dall’orchestra piena, rafforzata dal suono dell’organo e qui, il riferimento è ai grandi accordi della Cathédrale engloutie di Claude Debussy. La sesta porta si apre su un lago: un lago fatto di lacrime. Giuditta apre la settima porta ma, sorpresa, a differenza di quello che immagina e teme di vedere, in quest’ultima stanza non ci sono segni di dolore ma ci sono, vive, le tre donne precedenti di Barbablù: una per ogni fase del giorno: la prima l’ha incontrata al mattino, la seconda al pomeriggio, la terza la sera e, la quarta - lei Giuditta - che ha incontrato alla notte.

Sette sono le porte, come sette sono i giorni in cui Dio creò il mondo, sette sono i giorni della settimana, sette sono le note della scala diatonica. A tutto ciò si sovrappone il numero tre, ovvero la Trinità che attende la quarta sezione per essere completata.

Giuditta è la regina della notte che domina in bellezza e ricchezza su tutte le altre. L’opera di Bartók, a differenza di quella di Mozart, segna il trionfo della notte, una notte lunghissima e terribile che annuncia il sangue e le lacrime che da lì a poco interesseranno l’umanità: la prima guerra mondiale, e purtroppo … ancora tuona il cannone!

  • Like 1
Link to comment
Condividi su altri siti

Sicuramente un’altra cosa che accomunò Bartók al prediletto Beethoven fu l’amore per la Natura, amore che lui estendeva anche al mare  oltre la montagna e la campagna. Sole acqua, alberi, prati, costituivano per lui un attrazione ed una vera propria fede. Credeva molto nelle ascendenze astrologiche e Béla Balász ricordava molto volentieri un’intera notte passata con lui al chiaro di luna a parlare di questi argomenti.

Fu proprio Béla Balász a fornirgli la trama per il balletto

 

Il principe scolpito nel legno Opus 13

 

Iniziato nel 1914 e terminata nel febbraio 1915 e, nel sito di Terenzio, si possono trovare in merito altre informazioni.

Link to comment
Condividi su altri siti

Altro che le macchine da cucire che si sentono oggi suonare Bartok!! Questo sì che è ritmo e non semplici accenti (pestati) che si sentono oggi. Bartok era un grandissimo pianista ed un eccezionale interprete non solo delle sue composizioni ma anche di altri lavori!

Link to comment
Condividi su altri siti

La delusione per il fatto che la sua opera, Il castello del Principe Barbablù, non fosse messa in scena fu per Bartók, assai cocente. Questo fatto gli provocò una vera e propria siccità nel comporre e, nel 1913, nessuna opera uscì dalla sua penna. Meditò seriamente di cambiare mestiere  e dedicarsi anima e corpo, alla ricerca scientifica della raccolta e studi dei canti popolari. Ma, in realtà, questa astinenza compositiva, invece creò i presupposti per un nuovo linguaggio musicale. Nel 1915 cominciò a lavorare al suo Secondo Quartetto ma, prima di terminarlo, nel 1916, compose la

 

Suite per pianoforte Opus 14

 

e, anche in questo caso, potrete trovare informazioni relative  nel sito di Terenzio.

Link to comment
Condividi su altri siti

Bartók fu fortemente scosso dagli eventi bellici che insanguinarono l’Europa fra il 1914 e il 1918 e, nel 1916, la sua stessa famiglia ne fu coinvolta, fortunatamente senza gravi conseguenze, durante la ritirata austriaca in Transilvania, dove il compositore con sua moglie e il piccolo figlio trascorrevano solitamente le vacanze mentre lui andava alla ricerca di canti popolari del posto.

Il suo

 

Quartetto n. 2 per archi Opus 17

 

composto fra il 1915 e il 1917 si inserì perfettamente in questo quadro di eventi e sentimenti che pervasero il compositore in quel periodo.

È suddiviso in tre movimenti: un Moderato, un Allegro molto capriccioso e un Lento ma, in realtà, la loro dicitura riguarda sempre solo l’inizio, in quanto proseguono poi tutti con accelerazioni e decelerazioni, caratterizzandosi così con una mobilità completamente nuova rispetto a quella dei precedenti stili, classico e romantico.

Il Moderato è il movimento che più degli altri richiama le ascendenze romantiche di Bartók mentre l’Allegro molto capriccioso è in realtà uno Scherzo che ricorda molto l’Allegro barbaro di cui ho già detto.

Ma è il Lento a richiamare più di ogni altra cosa gli eventi bellici. Questa «marcia funebre del XX secolo», come la definì Massimo Mila, è piena di disperazione, desolazione e dolore.

Come sempre le maggiori informazioni su questo Quartetto le si può trovare nel sito di Terenzio.

Link to comment
Condividi su altri siti

Furono mesi di caos quelli che contrassegnarono le vicende storiche dell’Ungheria dopo la fine della prima guerra mondiale e la conseguente caduta dell’impero austro-ungarico. Nel 1919 s’instaurò per poco più di 6 mesi una repubblica comunista guidata da Béla Kun. I musicisti d’avanguardia ungheresi: Zoltan Kodáli, Ernő Dohnányi, Béla Reinitz e lo stesso Bartók, si schierarono a favore di questo regime, formando un Direttorio musicale che aveva il compito di rinnovare la vita musicale della nazione. Nella peggiore delle tradizioni comuniste, il regime si macchiò di nefandezze e Bartók ne fu profondamente amareggiato e in lui morirono tante illusioni.

Il regime crollò e fu sostituito dalla “restaurazione” che colpì, ovviamente, anche gli ambienti musicali che furono presi in mano di nuovo dai compositori più tradizionali. Seguirono punizioni disciplinari che interessarono tutto l’ex Direttorio. Bartók ne fu certamente il meno colpito: si limitò a chiedere un permesso scolastico di sei mesi e, questo, fece sì che su di lui non piovessero altre sanzioni.

Fu in questo clima storico e psicologico che nacque la pantomima in un atto:

 

Il Mandarino incantato (o prodigioso) Opus 19

 

da noi conosciuta più impropriamente con il nome di “Il Mandarino meraviglioso”.

Come per l’opera “Il castello del principe Barbablù” opera in un atto Opus 11 ci si può chiedere: cosa ha voluto dirci Bartók? Qual è la morale da trarre da questa pantomima?

Dirò subito che questa è l’unica opera che si svolge in una città del compositore ungherese che, come ho già detto, si rivolse sempre alla Natura nelle sue varie forme.

La scena si svolge all’interno di una squallida e lurida stanza dove tre malintenzionati, poveri in canne, sfruttano una ragazza affinché si prostituisca per depredare gli uomini malcapitati.

Il primo è un vecchio cavaliere che viene allontanato dai tre manigoldi perché non riesce a concludere nulla con la ragazza.

Il secondo è un povero giovane timido che piace molto alla ragazza ma che ha un solo “piccolo difetto”: è completamente al verde e, dunque, anche questo viene scacciato in malo modo e la ragazza rimproverata.

Il terzo è il nostro Mandarino: un essere assolutamente ripugnante che trasmette alla ragazza un senso di schifo. I tre criminali costringono la ragazza a sottomettersi a quello che ritengono essere il suo dovere. Fra brividi d’esitazione, inizia quindi la danza erotica di seduzione della giovane che si fa, via via, sempre più audace fin che cade fra le braccia del Mandarino. Ma il senso di schifezza ha il sopravvento ed essa cerca di fuggire. Il Mandarino completamente preso dal gioco erotico e dalla bellezza della ragazza l’insegue con tutte le sue forze, cade ma, rialzatosi, la raggiunge: questa scena è caratterizzata da «un fugato sopra ad un ostinato delle percussioni, nella tensione d’un mostruoso crescendo» che assieme alle Sacre du Printemps di Stravinskij, rappresenta quanto di più impressionante si sia composto in tema di grande orchestra all’inizio del Novecento.

I tre malviventi strappano la ragazza dalle mani del Mandarino, lo derubano e poi decidono di ucciderlo, soffocandolo con i guanciali. Il Mandarino però non muore. A questo punto lo trafiggono tre volte con una vecchia spada arrugginita: il Mandarino, seppur vacillante ed esausto, non muore neanche questa volta: sempre in tutto questo marasma, non ha tolto mai gli occhi, bramosi di desiderio, di dosso alla ragazza. A questo punto decidono di impiccarlo al lampadario ma, il suo corpo comincia ad emettere una luce verde-azzurra e i suoi occhi, incessantemente, guardano con lo stesso desiderio e la stessa libidine la ragazza.

La ragazza guarda il Mandarino e comprende la verità: egli non potrà mai morire finché lei non si concederà a lui. E lei, spinta da un atto di pietà, le si concede ed egli muore dopo una breve agonia.

Io penso che la morale di questa storia sia proprio questa: noi possiamo morire in pace solo se siamo riusciti ad ispirare un atto d’amore e di pietà in qualcuno, altro da noi. E quell’atto d’amore e di pietà redime sia chi lo riceve sia chi lo compie.

  • Like 1
Link to comment
Condividi su altri siti

Non per fare il fanatico ma Sandro Cappelletto, che ho avuto occasione di conoscere per caso in una biblioteca, quando ha saputo che ero l'autore del flaminioonline si è quasi commosso facendomi sentire una star! E' mancato poco che mi chiedesse un autografo e si è dichiarato fedelissimo frequentatore del sito.

  • Like 1
Link to comment
Condividi su altri siti

Join the conversation

You can post now and register later. If you have an account, sign in now to post with your account.

Guest
Rispondi a questa discussione...

×   Incollato come rich text.   Incolla come testo normale invece

  È permesso solo un massimo di 75 emoticon.

×   Il tuo link è stato incorporato automaticamente.   Visualizza come collegamento

×   Il tuo contenuto precedente è stato ripristinato.   Cancella editor

×   Non è possibile incollare direttamente le immagini. Carica o inserisci immagini dall'URL.

Loading...
 Share

×
×
  • Crea nuovo...