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Piano Concerto - Forum pianoforte

L'acustica Per Il Musicista: Pietro Righini


camy86
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Sono venuto a conoscenza di Righini, nell'anniversario dei 30 anni di Fazioli: ho visto parlare per un'ora l'ingegner Fazioli e ha detto che anche lui si appoggiò per le sue richieste e dubbi a Righini, che se non mi sbaglio (oltre a essere un fisico) è stato primo corno con Toscanini.

 

Paolo, spero di non abusare della sua memoria: il libro ha carattere prettamente scientifico (voglio dire se ha trattazioni matematiche rigorose) o più un carattere divulgativo? Lo chiedo perché da ingegnere (meccanico), mi affascinano poco le formule, che sono sì importanti, ma mai quanto i concetti che stanno dietro (sempre secondo il mio modesto parere).

 

Consiglierebbe anche altri libri? O meglio: quali libri alla sua mente la hanno colpita per chiarezza e limpidità?

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In realtà i libri sono due:

L'ACUSTICA PER IL MUSICISTA - ED. ZANIBON E

LESSICO DI ACUSTICA E TECNICA MUSICALE- ED. ZANIBON

 

Tuttie due da comprare, nell'ordine.

Libri piacevolissimi e con pochissime formule.( Nel primo quasi niente)

 

Sì Lui era cornista nell'Orchestra della RAI di Torino, che è stata diretta anche da Toscanini. Non aveva un buon ricordo del Grande Maestro ( E chi potrebbe averlo...per come trattava gli orchestrali???)

 

Sono due bei libri che escono dalla routine del Pintacuda e di altri libri che si contunuano ad usare "ostinatamente" nei conservatori ( non ultile e tesine in fondo al libricino dell'Allorto!!!!)

 

buona lettura

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  • 1 month later...

Volevo portare l'attenzione su un libro "Pianosophia” di Paolo Spagnolo e Giovanni Stelli (Ed. Alfredo Guida-Napoli), l'avete letto?? Io ho avuto la possibilità di leggere qualche pagina e sono restato affascinato, dalla spiegazione su come e perchè la tecnica pianistica è cambiata....che ne pensate??

 

Continuo a complimentarmi per il sito. La possibilità per me di avere amici con cui parlare di musica è eccezionale.Mi sento meno solo....GRAZIE ;)

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BUONA LETTURA

 

 

“Pianosophia” di Paolo Spagnolo e Giovanni Stelli (Ed. Alfredo Guida-Napoli):

 

“Indubbiamente la tecnica tradizionale ottocentesca (che mirava a sviluppare il puro meccanismo articolatorio delle dita isolate senza alcuna partecipazione del braccio e del suo peso) [Czerny in “Lettere ad una giovane fanciulla sull’arte di suonare il pianoforte” dice (2° lettera :”Sul tocco e sul modo di suonare..”): “anche colpendo con forza considerevole, la mano e il braccio non fanno alcun salto o movimento oscillante. Scoprirete…che le dita non possono suonare con piacevolezza e tranquillità se mani e braccia sono instabili”] è ormai da tempo riconosciuta errata nel suo fondamento ed i suoi principi sono stati per lo più abbandonati nell’attuale didattica. Tuttavia circolano ancora, curiosamente, e vengono periodicamente ristampati, ancor più curiosamente, metodi che su tale tecnica si fondano e ci sono ancora alcuni insegnanti e alcuni pianisti (anche esecutori di fama internazionale) che insegnano e suonano con questo tipo di tecnica. Queste “isole” di resistenza potrebbero essere liquidate come ultimi residui di una mentalità conservatrice, ma l’ostinata persistenza, sia pur minoritaria, di questo tipo di impostazione va spiegata meno sbrigativamente… La didattica pianistica si fonda oggi in prevalenza sulla moderna tecnica del peso, i cui principi essenziali furono individuati già nel primo decennio del secolo scorso da una serie di teorici e didatti (tra cui Steinhausen e Breithaupt e l’inglese Matthay, per citare qualche nome tra i più noti), che con i loro scritti e con il loro insegnamento contribuirono ad una trasformazione decisiva della tecnica pianistica.

Ci sono tuttavia parecchi insegnanti che, pur considerando nel complesso superati i principi che ispiravano la vecchia tecnica delle “dita articolate”, non si collocano affatto tra i fedeli seguaci della tecnica del peso; a quest’ultima essi rimproverano di trascurare il movimento autonomo delle dita, che mantiene invece, a parer loro, un’importanza essenziale e a cui deve esser dato nella pratica didattica un adeguato rilievo. Costoro, diffidenti nei confronti di discussioni teoriche, cercano in sostanza un compromesso empirico, pratico, tra le >. E bisogna riconoscere che, se l’insoddisfazione nei confronti della tecnica del peso ha un qualche fondamento e se occorre quindi dare spazio e importanza anche al movimento autonomo delle dita, proprio un’impostazione eclettica, non legata a > scolastici, può esercitare, per avventura, effetti positivi su alcuni elementi, in particolare su quelli più dotati, evitando dannose unilateralità. D’altra parte appare evidente che impostazioni diametralmente opposte sul piano dei princìpi generali non possono essere conciliate in modo eclettico, prendendo il “meglio” dell’una e dell’altra; il risultato non potrà essere molto diverso da una giustapposizione esteriore e contraddittoria di due tipi opposti di tecnica, e questa giustapposizione in linea di massima, ossia per la maggior parte degli allievi, non potrà che produrre confusione e disorientamento.

Se si vuole evitare la scorciatoia insoddisfacente dell’eclettismo, diventa allora necessario prendere in esame i presupposti della tecnica del peso, per cercare di individuare in essi l’eventuale radice di quelle carenze e di quei difetti che si manifestano di frequente negli allievi educati con questo tipo di impostazione. Ma, poiché la tecnica del peso si configura storicamente come critica radicale e antitesi delle tecnica digitale ottocentesca, sarà opportuno riandare… “alle origini” ed analizzare, preliminarmente, anche l’impianto teorico di quest’ultima.”

 

La tecnica come artificio: “sollevare le dita a martelletto"

Per comprendere l’impostazione e le prescrizioni della tecnica digitale

ottocentesca occorre rifarsi alla storia dello strumento. La storia

del pianoforte chiarisce infatti a sufficienza l'origine dell'equivoco fondamentale

che sta alla base di questa, ormai vetusta, tradizione didattica.

I1 pianoforte proviene dal clavicembalo; questa affermazione è,

nella sostanza, perfettamente giusta; è senz'altro vero che clavicembalo

e pianoforte sono due strumenti strutturalmente diversi e che, a rigore,

l'antenato del pianoforte non è il clavicembalo, bensì il clavicordo,

ma è ancora più vero che il pianoforte fu il nuovo strumento a tastiera

che sostituì, verso la fine del '700, per gli esecutori e per il pubblico, il

vecchio clavicembalo, e che la letteratura clavicembalistica divenne immediatamente,

senza richiedere alcuna modifica nella scrittura, letteratura per il

pianoforte. La tecnica del pianoforte non poteva quindi non essere,

specialmente all'inizio, profondamente influenzata dalla tecnica clavicembalistica.

Nella tecnica clavicembalistica, in rapporto alle caratteristiche costruttive

dello strumento, non si rende necessario usare il peso del

braccio. Il puro movimento digitale è più che sufficiente ad abbassare

i tasti, che sono leggerissimi, e a produrre il suono. Le dita non hanno

bisogno di potenza: esse si trovano, insieme all'avambraccio,

come ''in levitazione" sulla tastiera e, mantenendosi in genere piuttosto

arcuate, assumono una posizione distanziata dai tasti, onde evitare

qualsiasi falso contatto con questi ultimi che, sensibilissimi, rispondono

immediatamente alla benché minima sollecitazione, facendo scattare il

plettro che mette in vibrazione la corda.>>

nuova e assolutamente originale nei confronti di tutti i preesistenti

strumenti a tastiera sta nella possibilità di produrre

un enorme volume di suono e di graduarne nel contempo, in modo

estremamente ampio e raffinato, l'intensità. Questa peculiarità, da cui

non a caso il nuovo strumento derivò il nome, è presente (nonostante

carenze e difetti sia di sonorità sia di meccanica) già nei primi "gravi.

cembali col piano e forte" del Cristofori, che ne aveva intuito e genialmente

realizzato il principio costruttivo fondamentale, ossia l'interposizione

di un sistema di leve, di una "meccanica", tra la tastiera e le

corde. La meccanica del costruttore padovano già conteneva le parti

essenziali della meccanica del pianoforte moderno ed era così aperta

naturalmente ad una serie di modifiche migliorative, che di fatto si

verificarono nel Settecento e soprattutto nel corso dell'Ottocento. Pas

sando dalla tastiera del clavicembalo a quella del pianoforte, il purc

mobimento digitale di tipo clavicembalistico doveva rivelarsi ben presto

insufficiente per una adeguata percussione dei tasti e quindi per

realizzare il volume sonoro e tutta la ricca gamma dinamica di cui il

nuovo strumento è capace.>>

evidente anche sugli strumenti usati tra Settecento e Ottocento, ovvero

sul "fortepiano", come allora si usava chiamare il pianoforte. è indubbio

tuttavia che le caratteristiche costruttive del "fortepiano" - telaio

di legno, martelletti rivestiti di pelle, corde piuttosto sottili e corte,

scappamento semplice, tasti molto leggeri - erano tali da favorire l'illusione

che fosse possibile continuare in qualche modo ad usare la tecnica

digitale di origine clavicembalistica: per ottenere sonorità adeguate

non era infatti ancora indispensabile sfruttare in pieno il peso di tutto

il braccio a partire dalla spalla, mentre l'assenza del dispositivo del

doppio scappamento rendeva necessaria un'articolazione digitale piuttosto

pronunciata specie per realizzare trilli e note ribattute in velocità (L'assenza del dispositivo del doppio scappamento potrebbe spiegare anche l’origine

della vecchia, ed oggi completamente superata, "tecnica di polso" per l'esecuzione

di ottave in rapida successione).

Ma già nel periodo 1815-1830 il nuovo strumento subisce

una serie di importantissime modifiche migliorative che lo avvicinano

nell'essenziale al pianoforte moderno: è nel 1815 che Broadwood

per primo inserisce barre metalliche nel telaio di legno, e ben presto il

telaio misto legno-metallo si generalizza, i martelletti vengono ricoperti

di feltro e diventano più pesanti, il telaio viene diviso per consentire

l'aumento della lunghezza delle corde, che vengono sempre più rinforzate

(all'incrocio delle corde si arriverà nel 1859), viene adottato il

doppio scappamento (inventato nel 1821 da érard), aumenta il peso

dei tasti e il pedale di risonanza (brevettato già nel 1783) diventa sempre

più importante. Su un pianoforte di questo tipo, ossia sul pianoforte

ottocentesco, la tecnica digitale di derivazione clavicembalistica doveva

rivelare in modo ormai inequivoco la sua totale inadeguatezza (su uno strumento rnodemo questa inadeguatezza è naturalmente ancora più evidente.)>>

 

struttura con l'adozione del telaio interamente metallico [il "Cupola Iron Frame", brevettato da Theodor Steinway nel 1872], e la sua sonorità aumenta ulteriormente in

potenza diventando più "scura" specie nella zona grave) .

L'adozione del dispositivo del doppio scappamento rende ancora più

rilevante e significativa un'altra importante differenza del pianoforte

rispetto al clavicembalo. In linea di massima sul clavicembalo è necessario

suonare più "lentamente" che sui pianoforte e ciò, in primo luogo,

per motivi che non hanno a che fare con la meccanica, ma solo con

la musica: una velocità troppo elevata non è infatti musicalmente accettabile

a causa della particolare, tipica sonorità del clavicembalo, a

causa cioè dell’ ”aureola" che caratterizza i suoni prodotti da questo

strumento: ad una velocità eccessiva i suoni clavicembalistici tendono

infatti a sovrapporsi e si produce un effetto sgradevole di confusione

che distrugge la chiarezza delle parti. In secondo luogo, nella meccanica

del clavicembalo, in cui il tasto aziona direttamente il salterello che

agisce sulla corda, non c'è nulla di simile al dispositivo del "doppio

scappamento" caratteristico del pianoforte ottocentesco e moderno,

dispositivo che, rendendo possibile la percussione del

tasto ben prima che esso sia tornato nella posizione di riposo, consente

ad altissima velocità di note ribattute e di trilli. Sul claviceinbalo

le dita debbono "attendere" che i tasti siano tornati alla posizione

di riposo prima di poterli toccare di nuovo, per cui un trillo clavicemhalistico non può mai superare una determinata velocità, e questo

limite condiziona ovviamente la velocità complessiva dell'esecuzione.

In ogni caso, per la realizzazione di un trillo in velocità sul clavicembalo

è necessario "alzare bene le dita", ossia possedere una sviluppata

capacità di articolazione digitale.>>

 

mai in modo isolato né la mano è mai completamente immobile (così

come credevano i teorici delle vecchia scuola), bensì è sempre in qualche

modo presente - anche se invisibile - almeno l'azione rotatoria

dell'avambraccio, che "guida" tutti i movimenti digitali.

è chiaro tuttavia che nei movimenti clavicembalistici la partecipazione dell'avambraccio e del braccio rimane circoscritta e il movimento digitale assume un rilievo predominante: almeno in apparenza le dita articolano del tutto isolatamente

con la mano immobile senza alcuna partecipazione delle altre parti del braccio.

Sulla tastiera del pianoforte ottocentesco e modemo, però, la maggiore

velocità, resa possibile dal dispositivo del "doppio scappamento",

non può essere facilmente conseguita mediante la mera articolazione

digitale, anche per il maggior peso dei tasti. è necessario che al movimento

partecipi in in modo ben più evidente almeno l'avambraccio, di

cui deve essere sfruttata adeguatamente la caratteristica funzione rotatoria;

in effetti solo l'utilizzazione consapevole del movimento di rotazione

dell'avambraccio, e del suo peso, può consentire l'esecuzione

soddisfacente di un trillo ad altissima velocità sul pianoforte.

Il problema tecnico essenziale che i pianisti e i didatti dell'ottocento

dovettero risolvere fu il seguente: come ottenere la potenza

e la velocità richieste sul nuovo strumento?>>

 

potenza e velocità adeguate in modo istintivo e naturale, sfruttando il

peso dell'intero braccio e il movimento di rotazione dell'avambraccio,

senza essere tuttavia in grado di analizzare teoricamente i loro stessi

movimenti e quindi senza saper trasferire la loro tecnica spontanea

nella didattica. I teorici e i didatti, dal canto loro, restarono tenacemente

ancorati ai preconcetti di origine clavicembalistica e svilupparono

così i principi di una tecnica pianistica basata sul puro movimento

digitale. Quegli stessi grandi pianisti che suonavano in modo "naturale",

allorché si vestivano da didatti, ricadevano, in generale, nei pregiudizi

dominanti; occasionalmente si possono rinvenire nei loro scritti

anche intuizioni notevoli, ma sempre frammentarie e insufficientemente

fondate. In conclusione, invece di studiare le caratteristiche

peculiari che differenziavano radicalmente il nuovo strumento dal vecchio

e di elaborare di conseguenza una tecnica idonea, ci si limitò, nel

complesso, a trasferire e ad adattare la precedente tecnica clavicembalistica

al pianoforte.

Fu proprio attraverso questi "adattamenti" - necessari, dal momento

che il principio di fondo doveva restare immutato - che la tecnica

pianistica ottocentesca assunse la fisionomia di un sistema del tutto artificioso.

Questa artificiosità era, del resto, riconosciuta in modo più o

meno esplicito dagli stessi teorici del tempo. Poiché qualsiasi partecipazione

del braccio veniva tassativamente esclusa e l'utilizzazione del peso

era considerata addirittura un'assurdità "antiestetica", la mano e le dita

non potevano che apparire nel complesso piuttosto "inadatte" a suonare

il pianoforte! Pressoché tutti i didatti ne evidenziavano infatti i diversi e

numerosi "difetti" e "imperfezioni' (Il Boccaccini, ad esempio, dopo aver esaltato la mano come "opera meravigliosa", ne sottolinea con cura "difetti e "imperfezioni").

L'insegnamento del pianoforte veniva così a trovarsi, specie nella sua fase iniziale, in contraddizione con la struttura anatomica e le disposizioni naturali della mano e delle dita, che esso doveva mirare esplicitamente a "correggere". Di conseguenza

la tecnica pianistica non poteva che configurarsi come una tecnica sostanzialmente

innaturale, che prescriveva una serie di movimenti e di adattamenti psico-fisici del tutto artificiosi.>>

 

mediante il solo movimento digitale, si prescrisse di trasformare le dita in

tanti piccoli e potenti martelletti, obiettivo questo che poteva essere

raggiunto solo rafforzandole adeguatamente mediante una vera e propria

ginnastica, ossia attraverso interminabili e meccanici esercizi, proposti

spesso e volentieri anche senza lo strumento e a volte con

l’ ausi1io di mostruosi apparecchi meccanici appositamente escogitati

e oggi per fortuna completamente dimenticati (Una storia della tecnica pianistica dovrebbe comprendere anche la descrizione e la storia della fortuna di questi strumenti "ausiliari, come il Chiroplasto di Logier, il

Guida-mani di Kalkbrenner (detto da Liszt "guida-asini"!), L'Accélérateur du toucher" della Jaell ecc. fino al "Ditale prensile" del Brugnoli.)!

 

Che poi gli allievi venissero obbligati ad articolare tenendo le dita-martelletti "ben alzate" oppure - come sembra proponessero alcuni - senza sollevarle eccessivamente,

ma esercitando una "pressione" sui tasti, non muta la sostanza

della questione: il dogma fondamentale della tecnica ottocentesca,

ossia il movimento puramente digitale, l'articolazione delle dita isolate,

non veniva con ciò minimamente scalfito.>>

 

sempre attraverso interminabili esercizi, a perseguire l'obiettivo - anch'esso

illusorio - di una perfetta "articolazione" di ogni dito isolato,

ossia dell'assoluta indipendenza ed eguaglianza delle dita. è evidente

che non è possibile suonare in base a queste prescrizioni, senza una

continua forte tensione muscolare della mano e delle dita, tensione

che si riflette sull'intero braccio e produce immancabilmente dannosi

irrigidimenti e contrazioni; in alcuni casi ciò può causare anche specifiche

patologie (tendiniti, ecc.), a volte tanto gravi da rendere necessario

addirittura l'intervento del chirurgo (I fautori della tecnica digitale tendevano a considerare queste patologie pressoché inevitabili. Qualcuno consigliava di far usare ai bambini pianoforti con tasti di larghezza ridotta. Furono i sostenitori della tecnica fisiologica, ossia della tecnica del peso, ad individuare proprio nell'impostazione digitale tradizionale la causa di tutte le frequenti "malattie professionali" del pianista).

 

Gli appelli, che si rinvengono spesso nei metodi del tempo, a mantenere la mano "sciolta" e ad evitare "rigidità appaiono oggi patetici, poiché potevano essere esauditi

soltanto violando contraddittoriamente le "leggi fisse" e le prescrizioni

coattive stabilite dai metodi stessi!

 

Indubbiamente anche con la tecnica di sola digitazione si possono conseguire

buoni risultati, ma solo e sempre a prezzo di un grande sforzo muscolare

e di una innaturale contrazione. In ogni caso si è costretti a

rinunciare alla potenza che si può ottenere naturalmente mediante

l'idonea "predisposizione" di tutto il corpo allo strumento e alla tastiera,

cioè mediante un corretto adattamento psico-fisico. Un risultato

ottenuto in modo naturale è sempre superiore ad un risultato

ottenuto artificiosamente. L'artificio, ossia una contrazione controllata

e di breve durata, può essere usato in sostituzione dell'azione naturale

solo in quei rari casi (per realizzare, ad esempio, particolari

sonorità) in cui quest'ultima non appare adeguata allo scopo che si

vuole raggiungere.>>

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  • 2 weeks later...

Sto cercando i libri di Pietro Righini ma sono usciti fuori stampa e si trovano solo usati.

Volevo chiedere precisamente di cosa parlavano. Io sarei interessato alla formazione delle scale(dalla scala pitagorica a quella temperata equabile).

Dite che viene sviscerato bene questo argomento??

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  • 1 month later...

Io l'ho guardato sommariamente quando ho dato l'esame di storia della musica col vecchio ordinamento.

Molto molto valido, anche troppo ampio rispetto a quanto richiesto all'esame (non so come siano i nuovi programmi). Sarebbe utile un'edizione con dei files MP3 o un CD invece della musicassetta...

In generale Righini è considerato una sorta di "classico" per chi vuole approfondire l'acustica.

Ho provato a consultare anche il testo di Pintacuda, ma l'ho trovato pesantissimo e alla fine ho "ripiegato" su Allorto. A dirla tutta Allorto non sviscera male l'argomento delle scale...anche se, come Frank, non amo molto Allorto se non come ripasso finale due settimane prima dell'esame.

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Ultimamente ho abbandonato un po' questa questione, visto che mi toglie troppo tempo.

In alternativa al libro di Righini(che non trovo), mi hanno consigliato: appunti di acustica musicale di Andrea Frova, che mi ha colpito nella chiarezza della trattazione anche se l'argomento non è semplicissimo.

Questi appunti anche se non hanno trattazioni analitiche, secondo me sono troppo approfonditi per un eventuale esame, ma ottimi per chi vuole capire bene l'argomento senza perdersi in formule.

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