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Piano Concerto - Forum pianoforte

danielescarpetti

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Tutto postato da danielescarpetti

  1. Ciao Gilda, felice di conoscerti in questo forum! Ho deciso di inserire questo topic all'interno di questa tua felice idea di aprire un forum su Chopin perché mi è sembrato veramente un peccato lasciar cadere una tua affermazione che hai fatto per sostenere la tua causa. Eccola: «Chopin è un grande...non è solo un grande compositore pianistico...ma è un grande compositore. Sono certa che se non fosse morto così giovane e non fosse stato così umile avrebbe composto anche opere e sinfonie.» Ora, Gilda – certo che il tuo none o nik, fa pensare più a Verdi che a Chopin! - in attesa che eventualmente, se vorranno, altri ben più qualificati del sottoscritto possano dire la loro in merito, vorrei provare a dirti la mia. Il discorso circa il cosa avrebbero composto i tanti grandi compositori morti molto prematuramente, è un po' una costante nella storia della musica. Un Schubert morto a soli 29 anni, dopo aver composto immensi capolavori, un Mozart a quasi 36, un Pergolesi a soli 26, ma anche lo stesso Beethoven morto a 56 – pensiamo che Cherubini morì a 83 anni – ma con ancora tante idee per la testa, a cominciare da una sua decima sinfonia, cosa avrebbero potuto darci ancora oltre a tutto quello che ci hanno lasciato? Ovviamente la domanda è retorica e non potrà mai avere una sua risposta ma, giustamente, a noi piace porcela. Questa domanda vale anche per Chopin morto a soli 39 anni e che fu sicuramente «un grande compositore» - anzi un genio perché non dirlo apertamente – e non un solo «grande compositore pianistico», anche se per l'orchestra compose ben poco, e nulla per il teatro. Nel caso di Chopin, senza peccare di presunzione e senza per questo sminuirne l'importanza e la grandezza, penso che una cosa però si possa dire con estrema sicurezza: avrebbe certamente fatto altre cose splendide per pianoforte ma non avrebbe mai fatto musica per solo orchestra - e neanche più per pianoforte e orchestra – e tanto meno per il teatro. Perché Gilda sono sicuro di ciò? Perché Chopin, compose le sue uniche opere per pianoforte e orchestra fra il 1827 e il 1830 e, dunque, in età giovanile. Poi – a parte le Opus 3 e 65 per violoncello e pianoforte, i 17 canti Polacchi Opus 74, e altre cose di musica da camera, sempre presente comunque il pianoforte – tutto il resto fu per pianoforte. A cosa fu dovuta questo suo atteggiamento assolutamente restio a comporre per orchestra, è una questione che rimane assai dibattuta. Tutte le ipotesi fatte trovano un loro fondamento e una loro validità. Qui voglio proporne due, sostanzialmente in antitesi, e che però, ciò nonostante, contengo indubbia verità. La prima è quella di Claudio Capriola e Giorgio Dolza, coautori per l'Einaudi di un libretto, con tutte le opere di Chopin dal titolo: “Chopin. Signori il catalogo è questo”: «A noi sembra nel giusto chi ritiene che, soprattutto, il nostro musicista si fosse persuaso del fatto che il pianoforte, il solo pianoforte bastava a contenere l'intero suo universo sonoro, poetico ed espressivo». La seconda è di Milan Kundera, grande scrittore Ceco, sia di romanzi che di saggi, nonché musicista e figlio di musicista: «Sarebbe interessante esaminare tutta la musica dell'Ottocento come un tentativo costante di superare la sua dicotomia strutturale. Vorrei citare, per esempio, quella che chiamerei la strategia Chopin. (...) Chopin rifugge dalla grande composizione, e scrive quasi esclusivamente brevi pezzi riuniti in raccolte. (...) (Le poche eccezioni confermano la regola: i suoi concerti per pianoforte e orchestra sono mediocri). Egli si è quindi mosso controcorrente, perché ai suoi tempi il criterio base per valutare l'importanza di un compositore era la creazione di una sinfonia, di un concerto, di un quartetto. Ma proprio sottraendosi a questo criterio Chopin ha creato un'opera che è forse l'unica della sua epoca a non essere invecchiata e che resterà viva nella sua integralità, quasi senza eccezione.» Dal mio punto di vista, sono sostanzialmente d'accordo con entrambe queste affermazioni – tranne la parte finale di quella di Kundera, ma questo sarebbe tutto un altro discorso che ci porterebbe assai lontani da qui – perché, anche se so che dire ciò, può creare delle forte critiche, sono convinto che Chopin, nelle sue opere con orchestra sia stato sostanzialmente mediocre; e questo seppur i due concerti godano ancora oggi di grande popolarità presso il pubblico della musica classica. Per inquadrare tutto ciò è necessario come sempre rivedere e contestualizzare la storia della musica di quel periodo e, quella sopratutto relativa, al concerto per pianoforte e alla musica solistica per pianoforte. E dunque, come sempre, farò un pistolotto lungo. Amen e scusatemi! In realtà è - come per tutta la musica post-beethoveniana - necessario rifarsi a Beethoven e alla sua grandissima e, assolutamente ingombrante eredità. Nell'ambito della storia del concerto per pianoforte e orchestra, con Beethoven si compì quella rivoluzione, già ben presente nel Quarto Opus 58 del rafforzamento dell’aspetto sinfonico da un lato e di quello solistico dall’altro, ricercandone un'ideale integrazione: il solista non si sovrappone più e accetta di essere trattato come una sezione dell’orchestra. Dopo Beethoven, a cominciare dallo stesso Schubert che fu un compositore assolutamente poliedrico e geniale ma nel cui vastissimo catalogo pieno di ogni ben di Dio non risultano nessun concerto per strumento solista e orchestra? La risposta giusta la diede, secondo me, il musicologo Alfred Einstein: «Si potrebbe immaginare che sarebbe stato in grado di continuare a coltivare quel genere nel modo che l’aveva sentito Mozart, che tratta ancora il pianoforte come primis inter pares, in perfetto equilibrio con l’orchestra, senza rivestire nessuna funzione drammatica (…) ma dopo Beethoven i cui concerti erano già stati composti fin dal 1809 ciò non era più possibile. Dopo Beethoven, l’unica formula possibile era l’opposizione drammatica fra lo strumento solista e l’orchestra.» Per Schubert, per la sua concezione musicale ancorata ancora sotto vari punti di vista alla fine del 700, sarebbe stato impossibile proseguire su quella strada. Dopo Beethoven, i concerti i dei vari Craner, Moscheles, ecc. che calcarono lo stile salottiero fatto di partiture molto frivole e leggere allora tanto di moda, oggi sono sostanzialmente sconosciute. Ma si può ben dire che anche grandi compositori come Chopin e Mendelssohn non seppero andare oltre a questi modelli tanto è vero che Robert Schumann, nella sua qualità di critico musicale – egli fu uno dei primi a ricoprire anche questo ruolo nell’ambito della storia della musica – non mancò di riprenderli duramente. Del secondo Concerto per pianoforte e orchestra dell’amico Felix Mendelssohn così scrisse: «Appartiene alle sue creazioni più leggere, composte in fretta, proprio come quelle che scrivevano i vecchi maestri quando si riposavano delle loro grandi creazioni.» In realtà il problema ci fu anche per le Sonate e questo, proprio per la difficoltà a dire qualcosa di nuovo, dopo le ultime di Beethoven. Dopo i corpus piano-solistici beethoveniano e schubertiano, i compositori, si orientarono verso generi pianistici più brevi e ad unico movimento: studi, polacche mazurche, preludi etc.: lo stesso Chopin annoverò solo 3 sonate – di cui la 2 e la 3 sono capolavori assoluti – nel suo catalogo. L'unico compositore post-beethoveniano che compose 9 sonate fu Prokofiev. Ciò detto rimane comunque il fatto che Chopin con il suo “solo” pianoforte fu il compositore capace di riassumere l'infinito, di esprimere il linguaggio del sentimento, di dar voce all'indicibile e questo, senza pretendere di descrivere e illustrare alcunché.
  2. Ciao Armando, ti chiedo scusa se ti rispondo solo ora ma...! In realtà debbo chiedere scusa a te e a tutti quelli che mi hanno letto perché, in effetti, tu hai ragione: la parte deficitaria alla corte di Bonn fu quella degli ottoni. Come, purtroppo sovente mi accade, quando mi affido alla mia memoria senza verificare, faccio delle gaffes. Eppure dovrei essere consapevole che ormai sono un po' vecchietto! Quanto alle WoO 99, in effetti anche qui, puoi aver ragione, in quanto le correzioni riguardano più che altro le varie versioni di “Fra tutte le pene”, dove ci sono seconde versioni corrette da Salieri. Epperò, la mia forzatura nel dire che Salieri pensò assai male di Beethoven non è così campata in aria. Faccio riferimento a quanto Ferdinand Reis scrisse nei suoi appunti biografici, pubblicati assieme, nel 1838, con il dottor Wegeler. In particolare mi riferisco a laddove il Reis, descrivendo il rapporto fra Beethoven e i suoi tre maestri a Vienna: Haydn, Albrechtsberger e Salieri scrisse: « Ognuno affermava che Beethoven era stato sempre così caparbio e d indipendente che aveva dovuto apprendere attraverso una dura esperienza personale molte cose che in precedenza aveva sempre rifiutato quali argomenti di studio. Di questa opinione erano soprattutto Albrechtsberger e Salieri. Le aride regole del primo e quelle insignificanti del secondo riguardo alle composizioni drammatiche (sulla base della scuola italiana dell'epoca) non potevano riuscire gradite a Beethoven. » È molto interessante questa parte perché coincide, guarda caso, con le maggiori critiche che sono state fatte a Beethoven in merito al contrappunto – maestro Albrechtsberger – e musica vocale – maestro Salieri – e dimostrano ancora una volta, sempre dal mio punto di vista, l'idea di estrema libertà – altro che qualche licenza come annotato nella Fuga a tre voci dell'Hammerklavier – che Beethoven si prese nei confronti delle regole fino allora date in materia. Ma sintomatico del rapporto che venne in seguito a crearsi fra l'allievo e il suo ex maestro di canto, furono le forti critiche che Salieri rivolse a “Fidelio” e, più in generale a tutta la musica beethoveniana, e questo, come ho già detto da altra parte, fino ad influenzare Schubert a tal merito. In una lettera del gennaio 1809 – la 350 secondo la numerazione di Brandenburg – Beethoven scrivendo all'editore Breitkopf & Härtel così si sfogò: « Ma la gente dovrebbe sapere che nessuno qui ha più nemici di me, il che è tanto più comprensibile in quanto le condizioni della musica peggiorano di giorno in giorno. Abbiamo dei maestri di cappella che non solo non sanno dirigere, ma non sanno neppure leggere una partitura. Al Theater auf der Wieden, poi, la situazione è ancora peggiore. È lì che ho dovuto dare il mio concerto, ed è lì che l'intero mondo musicale ha cercato di ostacolarmi. Per odio contro di me, i promotori del concerto delle vedove, il signor Salieri in testa, hanno vigliaccamente minacciato di espellere dalla loro società gli orchestrali che avessero suonato per me.» Caro Armando, aldilà dunque delle mie indubbie gaffes, è assai chiaro cosa Salieri pensasse di Beethoven del suo modo di trattare con le voci e della sua musica in generale. « Il gigante Beethoven apparve con le sue gigantesche creazioni, ma gli strumentisti non furono in grado di eseguirle e il pubblico non le capì. Quante volte, assistendo all'esecuzione di una stupenda sinfonia del maestro, mi capitò di sentir dire: “È una totale assurdità” e di vedere con che rapidità (specialmente verso la fine di una sinfonia) l'uditorio si vuotasse, quasi avesse iniziato improvvisamente a diluviare, ma non di acqua si trattava, bensì di puro spirito. Beethoven dovette addirittura ritirare il magnifico, il più grande capolavoro, l'ouverture dell'opera Leonore, perché la si riteneva ineseguibile. Ora gli strumentisti hanno studiato a fondo tutti questi capolavori; senz'altro, conoscono a memoria ogni nota e pertanto eseguono questi brani con la massima precisione possibile e in questo modo anche il pubblico ha imparato a capirli e ad amarli. » (Dalle memorie del poeta Ignaz F, Castelli, Memoiren meines Lebens, Gefundenes und Empfundenes Erlebtes, hrsg. v. Josepf Bindtner, München 1913) Ciao Armando e...scusami per l'ennesimo lungo pistolotto!
  3. La domanda può essere dunque così riassunta: Beethoven scrisse le sue opere vocali in quella maniera perché « con la voce aveva dei limiti » - come asserisce Carlos - o perché il suo “Spirito” - come asserì Lippman, così gli dettò? A parte il fatto che solo lui potrebbe, ovviamente, darci una risposta certa in un senso o nell'altro, da parte mia continuo a pensare, dopo avervi letto e riconoscendo a Claudio – a cui mi sento in questo caso più vicino nel pensiero – e a Carlos, di dire cose entrambi giustissime. Da parte mia continuo pero a pensare che un compositore della grandezza di Beethoven – ma farebbe lo stesso seppur inferiore – non potesse non essere consapevole di quello che scriveva e, soprattutto, di come lo scriveva. Beethoven – a differenza di Bramhs – si rapportò con la musica e con tutte le sue regole fino a quel punto dettate, in maniera rivoluzionaria e questo, - a parte il lied su cui ci sarebbe da fare un'altra lunga e interessante discussione – lasciando una sua impronta devastante: è un dato di fatto, no? Se analizziamo la sua musica con orchestra e voci umane, non dobbiamo dimenticare che i suoi primi lavori risalgono al 1790, quando ancora a Bonn, compose prima la “Cantata per la morte dell'imperatore Giuseppe II WoO 87” - opera che sarebbe giusto eseguire molto di più di quello che oggi viene fatto e in cui, già sono in embrione, molti dei futuri pezzi di “Fidelio” – e la seconda la “Cantata per l'ascesa al trono dell'imperatore Leopoldo II WoO 88”. Entrambe queste due cantate – e soprattutto la prima – non furono mai eseguite perché ritenute impervie per la voce, segno dunque che, il giovane Beethoven, già intendeva la composizione con parti vocali in una certa maniera. Ma se nel 1790 si può supporre che fosse un suo deficit, altrettanto pare un po' incredibile nel 1805 e, ancor di più, quando compose la “Missa solemnis” e la “Nona sinfonia”: questo suo insistere fa più credere ad una scelta dettata dal suo “Spirito”. Non dimentichiamo che fra il 1798 e il 1801, Beethoven prese lezioni proprio in merito all'uso della voce presso Salieri, componendo vari canti a cappella e altre cose. Da notare che dei “Canti a cappella WoO 99”, esistono molto spesso due versioni: una scritta da Beethoven e l'altra corretta da Salieri, il quale spesso si lamentò che il compositore venuto da Bonn, proprio in merito a ciò, non capiva nulla. E allora, ancora una volta la domanda che mi pongo e che vi pongo: è possibile che un compositore del calibro di un Beethoven, nonostante le insistite lezioni di un Salieri, continuasse a non capir nulla o, non fosse piuttosto una sua impuntatura, una sua scelta di stile? E ancora vi domando: “Fidelio”, “Missa Solemnis”, finale della Nona – solo per nominare i massimi capolavori beethoveniani in questi campi – se oggi sono considerati in una certa maniera, non può anche essere perché Beethoven li ha concepiti così? Se Beethoven avesse composto “bene “ per le voci, sarebbero stati così importanti e grandi? Voglio finire, come è mio uso, riportando il pensiero di chi certamente più di me è legittimato a dare giudizi in merito e con cui mi sento in massima sintonia a tal merito: Giovanni Carli Ballola « L'osservazione che, nell'unica opera di Beethoven, i valori orchestrali superano di gran lunga quelli vocali condizionandoli e subordinandoli nel quadro di una dimensione schiettamente strumentale, potrebbe sembrare ovvia, se non ne deducessimo che proprio a questo spostamento del centro di gravità musicale e drammatico, l'opera deve la sua forza e il suo carattere eccezionalmente “moderno”. » Ecco, questo è il punto! Ancora una volta in Beethoven, il suo Spirito, come sempre, parla verso il futuro: è la ridefinizione del rapporto fra musica e parola a importare a Beethoven e non il resto di cui non gli importava molto e a far sì che egli lo rendesse “moderno” prima della “modernità”. Eppoi diciamocelo una benedetta volta: saranno anche scritte male per la voce ma, pur tuttavia, sono eseguibili visto che, comunque sia, sono tutte abbondantemente in repertorio e, sarebbe veramente un grosso peccato, dover rinunciare a tanta simile grandezza.
  4. Non sono un compositore e tanto meno sono un esperto di voci ma sono convinto di una cosa: un compositore sa se è un esperto di voci o meno e, tanto più, lo sapeva uno come Beethoven. Se Beethoven decise di comporre anche musiche che ricorrevano alla voce, sbagliando – perché nessuno mette in dubbio che il suo modo di usare le voci fu scorretto – lo fece dunque consapevolmente. O bella, e allora perché lo fece? Tu mi chiederai! Beethoven non componeva « per fare brillare i cantanti », ma altrettanto si può dire per gli strumentisti. Friederich Lippman ha, dal mio punto di vista, centrato la questione, ricordando la brutale risposta che Beethoven diede all'amico e grande violista Ignaz Schuppanzigh che, parlando di uno dei suoi ultimi quartetti si lamentò di certi passaggi, definendoli « insuonabili »: «Crede che io pensi al suo misero violino, quando lo Spirito mi parla? ». «Per Beethoven, come per nessun altro compositore prima di lui, (...) la voce umana era semplicemente un mezzo. L'ugola di una Anna Milder aveva per Beethoven, al quale parlava lo Spirito, né più né meno, il medesimo valore del misero violino di Shuppanzigh, Egli qui scriveva né come compositore vocale, né come compositore strumentale, bensì come un Tondichter (poeta dei suoni), cui riuscì, come a nessun altro contemporaneo, di fissare in suoni idee e passioni. » Due vociomani molto esperti, Enrico Stinchelli e Michele Suozzo – presentatori del programma “La Barcaccia” su Radio tre – che non son certo accusabili di essere teneri verso chicchessia, tempo fa parlando di Beethoven e del suo modo di trattare le voci, hanno detto chiaramente che se è indubbio che da parte del compositore di Bonn ci fu un uso “scorretto” delle voci, il risultato però ottenuto è quello di aver dato vita ad un'opera che è un capolavoro. Prendiamo il ruolo ad esempio di Leonore che « a causa d'una scrittura che batte con sadica insistenza sull'impervia zona del passaggio di registro (tra l'altro su un tessuto strumentale parecchio folto); che sollecita brucianti fiondate a si naturali subito seguiti da inabissamenti sotto il rigo; che impone lunghi passaggi nel registro centrale in frasi da articolare con particolare nitidezza perché decisive sul versante espressivo è spesso affidata a mezzosoprani provvisti di un buon registro acuto » (Elvio Giudici). Uno di questi mezzosoprano fu la grandissima Christa Ludwig che così si espresse in merito a quest'opera « Il mio legame con Fidelio è molto profondo. (...) Si tratta di un'opera sui generis, sia perché Beethoven non è un vero operista, sia per il significato profondo di questo capolavoro, un patrimonio dell'intera umanità, che travalica l'ambito puramente musicale. »
  5. Grazie a te! E allora ecco il terzo papiro, se proprio avete voglia di leggere! Nella prima scena del primo atto, Giacchino, portinaio della prigione, tenta disperatamente di dichiarare il proprio amore per Marcellina figlia di Rocco capo carceriere. Ella però è innamorata di Fidelio, non sapendo che in realtà questi, è Leonora, vestitasi da uomo per cercare di entrare nella prigione e salvare il marito Florestan che è lì incarcerato per motivi politici. Una volta rimasta sola Marcellina canta il suo amore per Fidelio: Se solo fossi a te riunita e mio sposo chiamarti potessi! Certo una ragazza non ha il diritto di confessare più di metà dei suoi pensieri. Ma quando non dovrò arrossire per un bacio ardente, quando al mondo c’importunerà - già la speranza mi riempie il cuore di una gioia inesprimibile – come sarò felice! Nella dolce pace familiare ogni giorno mi risveglio. Ci salutiamo con tenerezza, l’attività scaccia le preoccupazioni. E’ finito il lavoro, una soave notte ci attende e ci fa obliare le pene. Già la speranza mi riempie il cuore di una gioia inesprimibile, sarò felice, sarò felice! E' per me un testo formidabile, proprio perché concepito ad inizio Ottocento: La Donna è vista non solo come moglie, ma come persona che al pari dell'uomo, desidera e afferma la sua voglia d'amore, tenerezza, baci e soavi notti perché questo, solo questo, può essere il presupposto per la felicità fra due innamorati. Dopo una conversazione dove Rocco, auspica che Fidelio sposi la sua Marcellina segue un'Aria, dove il capo carceriere afferma che il segreto della felicità è certamente dato dall'Amore ma, ben poca cosa sarebbe: Se non si ha dell'oro da parte (...) La felicità va pagata come un servo, è una cosa bellissima l’oro!” Leonora-Fidelio non è d’accordo e risponde: Tutto ciò va bene per voi, maestro Rocco, ma io sostengo che l’unione di due cuori che battono all’unisono è fonte della vera felicità. Leonora-Fidelio ne approfitta per chiedere del prigioniero che si trova in un sotterraneo segreto e dove, solo a Rocco è consentito entrare. Il carceriere afferma che lì esso si trova da più di due anni. Leonora sussultando afferma: Due anni dite? Deve avere commesso un gravissimo delitto!. Rocco risponde: Oppure deve avere nemici molto potenti, il che è la stessa cosa. Dura accusa questa verso le tirannie, dove in galera si finisce non perché malfattori ma perché portatori di idee contrarie al potere dato. Rocco dice: Bene figliolo, bene sii sempre coraggioso e avrai successo. (…) Leonora-Fidelio risponde: Per una grande ricompensa l’amore può ben sopportare anche grandi sofferenze. Rocco afferma: Costruirai, è certo la tua felicità. Leonora-Fidelio risponde: Ho fede in Dio e nella giustizia. Marcellina conclude: Ma guardami negli occhi! Neanche la potenza dell’amore è piccola Dio, giustizia e amore: questi sono dunque i punti cardine, imprescindibili per Beethoven per raggiungere la felicità e la gioia. Alla fine di questa scena risuona una marcia che annuncia l'arrivo di Pizarro e dei suoi sgherri, il governatore despota che ha fatto incarcerare Florestan Pizarro appena entrato legge una lettera che gli è stata spedita da una sua spia e che gli annuncia l'arrivo del Ministro il quale verrà a fare un sopralluogo nella prigione perché gli è giunta voce che in quel posto vengono fatti da parte del governatore dei veri e propri soprusi sui prigionieri. Terrorizzato Pizarro pensa a Florestan che il ministro crede morto e che invece egli ha fatto mettere in catene perché intendeva denunciarlo per tutte le sue malefatte proprio al ministro: Nell'aria che segue, caratterizzata da una musica che annuncia la sua minaccia, egli afferma la sua intenzione di assassinare Florestan. Dopo avere incaricato una guardia affinché tenga d'occhio la strada di Siviglia e di dare immediatamente l'allarme se vede arrivare qualcuno, Pizarro si rivolge a Rocco e promettendogli di farlo diventare ricco, lo incarica di uccidere Florestan. Rocco, terrorizzato si rifiuta e allora, il governatore molto irritato con lui, gli chiede di preparare la fossa, dopo di che sarà lui ad uccidere l'odiato nemico. Leonore, però ascolta nascosta tutta la loro conversazione. Essi usciti, Leonore esce allo scoperto e canta un recitativo fugato, seguito da una dolcissima Aria d'amore, annunciata e accompagnata da magnifici corni, verso il suo Florestan dove per la prima volta si fa riferimento alla luce come fonte di liberazione e di vittoria dell'amore: Per me invece sorge l'arcobaleno lassù al di sopra delle nuvole nere e la sua vista mi rasserena. In esso è riflesso il tempo antico e il mio sangue scorre di nuovo impetuoso. Vieni, speranza, non lasciare svanire l'ultima stella che rischiari la mia pena. Vieni illuminata meta anche se è ancora tanto lontana: l'amore la raggiungerà. Seguo l'impulso del cuore Leonore – Fidelio convince Rocco ad aprire ai prigionieri e lasciarli un po' alla luce e all'aria. Il celeberrimo e bellissimo Coro dei prigionieri introduce il tema del contrasto della luce che si identifica con la vita e la libertà, e delle tenebre che si identificano con la prigione e la tirannia. I prigionieri escono infatti dalle loro buie celle e vedendo la luce del sole intonano: Oh, che piacere all’aria libera poter respirare senza fatica; solo qui, solo qui è la vita, la prigione è come una tomba. Ci sostiene la fiducia la fiducia nella misericordia divina; la speranza mi sussurra; avremo libertà e riposo. Oh cielo, la salvezza, che gioia! Oh libertà, ritorni a noi? Compare qui un’altra costante del pensiero beethoveniano: la fiducia e l’ottimismo che aiutano l’uomo anche di fronte alle più grandi avversità e ingiustizie della vita. Rocco annuncia l'intenzione di Pizarro di uccidere Florestan a Leonore, la quale disperatamente, cerca di convincerlo a non andare a scavare la fossa. Intanto però, il tiranno si è accorto della uscita dei prigionieri e, molto adirato se la prende con Rocco: Siamo al termine del primo atto, Pizarro impone il rientro dei prigionieri e a Rocco di affrettarsi a scavare la fossa di Florestan. Costretti a rientrare i prigionieri cantano: Addio, dolce luce del sole fra un attimo non ti vedremo più: già la notte è pronta a ingoiarci una notte lunga senza mattino. Marcellina osservando i prigionieri sussurra: Come si affrettavano verso la luce e ora tristemente l’abbandonano. Mentre Leonore si chiede: Non c'è punizione per il delitto? Entriamo ora nella parte più drammatica e più bella dell’opera: il secondo atto. Siamo nell’interno della buia cella di Florestan la cui “oscurità è rotta dal chiarore di una lampada”. La simbologia della contrapposizione fra le tenebre – il male – e la luce - il bene - trova qui la sua massima espressione di drammatica bellezza musicale. Nelle parole declamate da Florestan c'è l’accettazione di quello che il Divino gli ha destinato, confortato in questo però, dalla consapevolezza che comunque sia, egli ha svolto il suo dovere di uomo libero e onesto. le parole che Beethoven fa cantare a Florestan sono espressione della sua filosofia di vita: Dio mio,che oscurità! Che silenzio terribile! Intorno a me il deserto, nessun altro essere vivente! Quale tormento! Giusta è pur la tua volontà Non mi lamento, oh Dio, decidi tu Le misure delle mie sofferenze! Nella primavera della vita la felicità mi ha abbandonato. Osai dire ad alta voce la verità e le catene furono la mia ricompensa. Ma sopporto ogni dolore e questa misera fine, confortato dal pensiero di aver fatto il mio dovere. (…) Subito dopo, con molta emozione, intravvedendo uno spiraglio di luce perché Leonora e Rocco stanno entrando, egli esulta; non si rende conto di cosa stia accadendo e pensa che un Angelo del cielo con il viso di Leonora, sia venuto a portarlo nel “Regno dei cieli”, l'emozione è talmente forte che crolla svenuto. Leonora e Rocco sono ora scesi nella cella e devono cominciare a scavare la fossa per il carcerato che, nel buio non è possibile riconoscere. Leonora cerca disperatamente di prendere tempo per non aiutare Rocco e, borbottando con se stessa, afferma: Oh tu chiunque sia ti salverò! Giuro che non ti uccideranno e che ti libererò dalle catene; mi fai tanta compassione! Il tutto è accompagnato da una bellissima musica che dà pienamente il senso del momento tragico e dei sentimenti che pervadono i vari personaggi. Florestan si sveglia e parlando con Rocco apprende che il governatore di quella cella è Don Pizarro: l'uomo di cui osai smascherare i misfatti Leonora comprende ora che si tratta di suo marito e in un terzetto, caratterizzato da una musica dolce e malinconica, cerca di fare leva sui buoni sentimenti di Rocco per portarlo dalla propria parte e per liberare Florestan che è inconsapevole che ella è lì accanto a lui: Il mio cuore mi spinge fra le sue braccia ella mormora allontanandosi e cercando di dominare tutta la sua emozione. Quella che segue è la scena che sempre mi infonde un'emozione indicibile e che mi commuove fino alle lacrime. Pizarro entra nella prigione e annuncia al suo martire chi egli sia veramente: Pizarro che volevi rovinare Pizarro che avresti dovuto temere, è qui per fare la sua vendetta! Mentre tenta di pugnalarlo però, Leonora si frappone fra loro gridando: Uccidi prima sua moglie! Lo stupore che segue è grande ma , subito dopo, Pizarro decide di uccidere entrambi, Leonora estrae una pistola e puntandola contro all'odiato tiranno lo ferma. Ora, qui, con profonda emozione, si sentono i squilli fuori della tromba che annuncia l'arrivo del Ministro. Pizarro fugge. Leonora e Florestan cantano assieme: L'amore e il coraggio uniti ridaranno la libertà Segue un duetto dove i due coniugi manifestano la loro felicità nel ritrovare sé stessi e la libertà ringraziando per questo Dio: Grazie , o Dio, per questa gioia! Mio marito, mia moglie sul mio petto. Sei tu! Sono io! O gioia sublime! Leonora! Florestan! Scena finale dove la vittoria della luce sulle tenebre è sancita; è l’auspicio di Beethoven che i popoli vengano governati non da tiranni, ma da uomini “illuminati”. Uomini che abbiano come loro fine l’interesse e il bene di tutta la collettività e non i propri interessi personali: Per volontà espressa del nostro ottimo re, sono qui venuto, poveri infelici, a dissipare le fitte tenebre che ingiustamente vi avvolgono. non più in ginocchio come schiavi! lungi da me lo spirito di tirannia! e’ un fratello che cerca i fratelli ed è felice se li può aiutare. Rocco, seguito da Leonora e Florestan entrano in scena e mettono al corrente il ministro di tutto quello che è accaduto. Pizarro tenta di giustificarsi ma la condanna è senza appello. Marcellina invece, da parte sua e con tanta delusione, deve prendere atto che il suo amato Fidelio è una donna. Annunciati da una dolcissima e liberatoria melodia dell'oboe e poi del flauto e via via degli archi, tutti intonano: Oh Dio, quale istante! Dolce, inesprimibile gioia! Giusto è il tuo giudizio, o Dio. Tu ci metti alla prova ma non ci abbandoni! Chi soave donna acquista deve al giubil nostro unirsi Non sarà mai abbastanza lodata cole che ha salvato il marito Il filosofo Ernst Bloch nel XX esimo secolo, costruì gran parte della sua filosofia sul Fidelio. I suoi testi principali “Spirito dell'utopia” e “Il principio speranza” partono proprio dal suono delle trombe che annunciano l'arrivo del ministro e dal grido di giubilo: O Dio, quale istante! Giubilo che arriva alla sua massima esaltazione mentre Leonora pronuncia l’esaltazione dell’Amore come vero e proprio antidoto contro qualsiasi avversità L’amore ha sorretto i miei sforzi! Il vero amore non ha paura di nulla! L’amore mi ha consentito di liberarti dalle catene. L’amore mi fa ora cantare: il mio Florestan è di nuovo con me! ps: Ciao FranK, come va? Poi ti rispondo anche a te!
  6. Grazie Tiger, e visto il tuo interesse , questa è la seconda parte! Ma quali furono i motivi dell’insuccesso di Leonora-Fidelio nella sua prima versione? Come sempre è necessario tenere presenti gli eventi storico-politici incentrati, in questo caso, sulla figura di Napoleone. Questi, dopo essersi auto-eletto imperatore di Francia, continuò le sue mire espansioniste verso tutto il resto d’Europa. L’allarme nell’impero asburgico salì alle stelle e questo fece si che la censura si facesse sentire ulteriormente. Il Singspiel beethoveniano fu ultimato nel settembre 1805 e dovette passare il visto della censura che, naturalmente, lo bloccò in quanto « non adatto alla rappresentazione ». Iniziò quindi un vasto lavoro diplomatico che durò tre giorni alla fine dei quali, fu imposto a Beethoven di attenuare « le scene più brutali » soprattutto quelle che riguardavano il despota Pizarro. Mentre il compositore per cause di forza maggiore fu costretto a rimandare la rappresentazione dell’opera, la situazione politica ebbe una brusca svolta: Napoleone sbaragliò l’esercito austriaco a Ulm il 20 ottobre e occupò Salisburgo. Da qui iniziò la sua marcia verso Vienna, dove vi entrò il 15 novembre. Di conseguenza, quando il 20 dello stesso mese, si aprì il sipario del Teatro an der Wien, esso fu completamente pieno di ufficiali dell’armata francese solitamente abituati a spettacoli di ben altro tipo a Parigi per non parlare poi della musica, assai complicata per le loro orecchie e, per di più, con un testo in lingua tedesca. Il risultato fu dunque quello di due repliche a teatro quasi vuoto. Dopo parecchie insistenze da parte degli amici, Beethoven acconsentì alla revisione dell’opera riducendola da tre a due soli atti. La seconda versione fu data il 29 marzo 1806. Nel nuovo palinsesto splendeva in tutta la sua infinita bellezza una nuova Ouverture: quella che noi conosciamo col nome di “Leonore 3” che, fra le quattro concepite per il Singspiel beethoveniano, è certamente un capolavoro assoluto. Salvatore Sciarrino, compositore contemporaneo così si è espresso in merito a questa Ouverture: «Una musica di slanci e stupori visionari. (…) è composta per blocchi, in secondo luogo è incredibile il suo aprirsi su un’altra dimensione (…). E’ chiaro che Beethoven sia partito da un semplice contrasto drammatico, raggiungendo un risultato inedito. Con l’alternarsi brusco tra fortissimo e pianissimo, tra denso e meno denso si determinano blocchi di suono dai margini netti. Sentiamo un’intermittenza fra le due musiche: i frantumi di una melodia sommessa e singhiozzante e i ruggiti di un’oscura tempesta. Poi le scale aprono il sipario, la musica si ferma, e noi sentiamo uno squillo di tromba librarsi dal cortile esterno. Riprende la musica e presto si posa. Di nuovo si apre alla nostra mente lo spazio esterno. Quindi la musica prende a rifluire lentamente. Non ho fatto alcuna forzatura dicendo che sentiamo i suoni dal cortile. Questa Ouverture fu composta per l’opera Fidelio. Certo, la conoscenza della vicenda teatrale può mettere sull’avviso e fornire alcuni dati d’ambiente. Tuttavia è l’autore a pretendere da noi un’associazione spaziale immediata, che proviene direttamente dalla musica. Dove vorremmo che risuonassero gli squilli militari, se non nei cortili delle caserme? Ecco l’incongruenza spazio - temporale imperversare nel pieno di un pezzo sinfonico. (…) Lo spazio è una delle principali seduzioni del linguaggio teatrale, e noi comprendiamo che lo scontrarsi fra l’esterno e l’interno sia un derivato della musica di teatro. E tuttavia dovremmo fare una considerazione più sottile, nel prendere in esame globalmente la nostra tradizione: e cioè l’ampliarsi dell’orchestra romantica costituisce di per sé una presa di possesso fisico, dello spazio. È quasi naturale conseguenza che una lontana frangia si stacchi dal grosso dell’orchestra dislocandosi altrove, come è il caso delle postazioni isolate di Mahler. Se oggi i suoni elettronici possono muoversi e ruotare attorno al pubblico, è grazie ad alcune idee embrionali disseminate lungo il secolo XIXesimo. » Ma, anche questa Ouverture, come molta della musica di Beethoven, non fu capita dal pubblico e dalla critica del tempo e fu giudicata inadatta. Per cui il compositore fu costretto, nella sua ultima versione del 1814, a comporre quella che è poi rimasta l’ouverture vera e propria dell’opera. Fortunatamente Gustav Mahler nel dirigere “Fidelio” pensò bene, di inserire la “Leonora 3” al centro del secondo atto fra un cambio di scena e l’altro e, oggi, seppur non accettata da tutti i direttori, molti continuano a perpetuare quella scelta che, a mio avviso, proprio per quella forza e quella bellezza che essa emana, costituisce un valore aggiunto ad una parte dell’opera che di per sé, raggiunge in quella fase il suo più alto momento musicale. L’opera nella sua seconda versione sembrò dare buoni risultati, ma Beethoven si trovò in un periodo della sua travagliata vita non molto positivo: la sua salute già molto precaria ulteriormente peggiorò e ciò, contribuì ad accentuare le sue caratteristiche più scontrose e dispotiche. Trovò difetti dappertutto: gli ottoni, il coro e, infine, arrivò a litigare col Barone Braun, proprietario del teatro, rimproverandolo degli scarsi introiti. A sua volta il barone gli replicò che quando la galleria sarebbe stata piena, gli incassi sarebbero aumentati. Beethoven furente replicò: « Io non scrivo per il loggione! » Il barone a sua volta rispose: « Ah no? Mio caro signore, perfino Mozart non sdegnava di scrivere per il loggione! » Fu la goccia che fece traboccare il vaso! In un impeto d’ira Beethoven chiese il ritiro dell'opera; la cosa fu presto fatta e della “Leonora - Fidelio” non se ne parlò più fino al 1814. Questo atteggiamento di Beethoven, costituisce uno dei punti saldi per cui alcuni, ritengono essere stato il compositore un “reazionario” Ora, indubbiamente visto con gli occhi di oggi e giudicata con la nostra attuale mentalità, la frase da lui pronunciata potrebbe avvalorare le idee di questi, i quali, oltre tutto, sostengono che Beethoven dei principi della Rivoluzione francese, in generale, importasse ben poco e in particolare, quello con cui fu più in rotta di collisione: l’Uguaglianza. Ma, penso che come sempre, sia importante contestualizzare le cose. Questa frase venne pronunciata all’inizio del XIXesimo secolo, da un uomo di indubbie grandi capacità e genialità; quando cioè, ancora ben definita, fu una distinzione netta fra le varie classi sociali. I frequentatori dei teatri erano i rappresentanti della nobiltà, classe che Beethoven considerò « paurosamente vuota al di là delle splendide e fuorvianti apparenze » e dall’emergente borghesia – classe a cui per altro, lo stesso Beethoven, appartenne – che il compositore considerò, nella sua generalità, mediocre e definì « la massa plebea », perché vista come incapace di innalzarsi al di sopra e di saper realizzare compiutamente la propria personalità. In altre parole, Beethoven, considerò « la borghesia ignorante, superficiale, incolta, dedita solo a lucrare ». Fu anche pur vero che egli non smentì mai chi lo credette appartenere alla classe nobile per via del suo cognome anticipato da un van - in realtà per essere nobili sarebbe dovuto essere un von - ma, questa pretesa, fu legata, sopratutto, al processo in cui si dovette decidere la tutela del nipote, in quanto l’eventuale conferma di una vena nobiliare, gli avrebbe assicurato automaticamente la vittoria della causa di affidamento. Sul tasso di democraticità di Beethoven, in realtà, mi trovo in perfetto accordo su ciò che scrisse invece Luigi Magnani: « Egli si rifiutava infatti di riconoscere ciò che un uomo è “per casualità di nascita”, sminuiva l’importanza della condizione sociale a cui appartiene, non per livellare gli uomini in basso o in alto, ma per stabilire una nuova gerarchia di valori, per affermare l’autentica superiorità degli spiriti eminenti, che costituiscono quella vera aristocrazia, fiore di umanità, cui egli sa di appartenere. Aristocrazia rivoluzionaria la sua, in lotta con la falsa superiorità e la supremazia della classe dominante ed insieme contro la mediocrità spirituale e la vita miseramente egoista della classe borghese, disprezzate entrambe da Beethoven perché entrambe di ostacolo al libero sviluppo della personalità umana, alla affermazione piena del merito individuale.(…) » L’individualismo in Beethoven come in Goethe fu prioritario ed entrambi lo identificano con: « “Il diritto di Natura” - che ha la supremazia su ogni forma meditata di ordinamento e di organizzazione – (…) Intimamente legato a questa concezione illuministica, Beethoven la sostiene contro la nuova tendenza romantica che al diritto naturale oppone il diritto acquisito, all’indipendenza e alla libertà individuale la dipendenza alle istituzioni sociali e alle leggi (…) » Piero Buscaroli, critico musicale bolognese, a cui si deve una biografia beethoveniana molto discutibile e, sopratutto, molto dispersiva, è certamente in prima linea fra quelli che considerano Beethoven un “reazionario”. Il punto è che Buscaroli crea un Beethoven a sua immagine. Fra le innumerevoli cose che egli sostiene in controcorrente rispetto alle opinioni più diffuse, è che Beethoven scelse la “Leonore où l’amour conjugal” di Bouilly”, proprio per rendere esplicita la sua avversione verso la Rivoluzione francese affermando così, a dispetto di chi solitamente sostiene il contrario, la sua lontananza dagli ideali da essa propugnati. Il presupposto del ragionamento di Buscaroli parte dal fatto che Bouilly assicurò che la storia da lui raccontata realmente accade veramente in Turenna. Una nobildonna si impegnò come aiutante presso il carceriere della prigione dove il marito fu incarcerato e riuscì a salvare la sua vita, respingendo con la pistola in pugno, il sicario al servizio di Robespierre, incaricato da questi di ammazzarlo. Da questo Buscaroli ne fa conseguire che essendo:« (…) la tirannide sanguinaria di cui si tratta (...) il culmine criminale della rivoluzione, mentre prigionieri e vittime erano gli aristocratici in attesa del supplizio, s’inquadra alla perfezione nell’antipatia che l’espansionismo francese suscitava ora in Beethoven, e sarebbe grandemente cresciuta negli anni successivi. Ne viene di naturale conseguenza che la libertà qui invocata non è quella dei saturnali giacobini, ma proprio il suo rovescio ossia il ritorno all’ordine legittimo. Non ne risulta affatto paradossale, a differenza di quanto talora si legge, che la definitiva consacrazione di Fidelio quale capostipite dell’Opera tedesca dell’Ottocento avvenisse proprio nel 1814, in coincidenza col congresso di Vienna. La libertà ritornata che vi si esalta dopo il terrore sanguinario coincide ora con la fine delle guerre di rapina che da un quindicennio straziavano l’Europa. I sentimenti politici di Beethoven hanno compiuto l’intero periplo, la cui conclusione coincide con l’esaurimento del ciclo “eroico” nella sua vicenda artistica personale.(…) » Dal mio punto di vista vizio di fondo del suo ragionamento sta nel fatto che la “Leonore - Fidelio” se, sicuramente arrivò al suo successo nel 1814, come già ho detto, fu redatta però nella sua prima versione fra il 1804 e il 1805. Guarda caso, proprio in quel periodo in cui compositore, fra le altre, fu alle prese con la composizione dell’Eroica e cioè, proprio nel momento che apprese della decisione di Napoleone di farsi imperatore. La sua reazione, ne parlai già quando scrissi di questa Sinfonia, fu quella di un uomo molto arrabbiato e deluso. Un uomo che dovette prendere atto del tramonto di quella sua grande speranza: che proprio gli ideali propugnati dalla Rivoluzione francese si potessero incarnare in una persona. Se da un lato dunque strappò la dedica della Sinfonia a Napoleone, dall'altro decise di trovare un soggetto che – fra le altre cose – mettesse in risalto la misera fine in cui quei nobili ideali. In realtà la voce di Beethoven si alzò, come sempre nella sua opera, indistintamente contro ogni tipo di tirannia, dapprima quella asburgica, poi quella francese, poi di nuovo, dopo il Congresso di Vienna, quella asburgica. Ma come tutti gli idealisti puri, pur strappando la dedica a Napoleone della sua Sinfonia n. 3, pur componendo un’opera teatrale che mise in chiara luce le degenerazioni del dopo Rivoluzione francese, pur soffrendo per l’invasione che le truppe napoleoniche operarono nella sua Vienna, Beethoven continuò ad avere verso l’uomo venuto dalla Corsica, un rapporto di odio-amore e, in fondo al suo animo, covò sempre la speranza nei suoi confronti e, questo, finché Napoleone fu definitivamente sconfitto. Ma di queste cose ne ho già scritto a proposito dell'Eroica e dunque ad essa rimando Affermare poi, come fa Buscaroli, che la terza versione del Fidelio sia da intendere in quel clima di restaurazione sancita dal Congresso di Vienna è secondo me fuorviante. Beethoven fu contro, come ho già detto, ogni tirannia e se la fine di quella napoleonica non poté che essere da lui salutata positivamente, fu però anche perfettamente consapevole che la restaurazione in atto era l’altra faccia della stessa medaglia. Da questa considerazione - e da altri motivi più strettamente personali - iniziò proprio quel periodo di grande silenzio che coincise con la fine del “periodo eroico”. Quel silenzio come ben sappiamo, sfociò poi in seguito nel meraviglioso e miracoloso “terzo stile” che Beethoven in una sorta di “rinascita” a nuova vita compositiva dopo aver vissuto il periodo più sofferto sul piano personale, caratterizzò con una – quasi - assoluta indifferenza verso ogni critica proveniente dall'esterno, così producendo quei massimi capolavori di musica,di elevazione visionaria e, sopratutto -non mi stancherò mai di ripeterlo, tanto è lo stupore che si prova di fronte ad essi - di sorprendente e inaudita valenza avveniristica. Immagino l'obiezione che qualcuno potrebbe farmi: se è come sostieni, come si spiegano allora quelle musiche di stampo chiaramente celebrativo del potere asburgico che Beethoven compose fra il 1814 e il 1815? Non sono forse esse invece la chiara prova dei sentimenti reali del compositore di Bonn? La mia risposta è che queste opere, fra l’altro non particolarmente significative dal punto di vista strettamente musicale, furono dettate dalla prioritaria e unica esigenza di guadagnare soldi; esigenza che in quel periodo per lui fu veramente di carattere vitale, visto che quelli che erano stati i suoi maggiori mecenati e sostenitori – per un motivo o per un altro – erano venuti meno. E dunque, purtroppo, come accade spesso a tanti grandi, anche Beethoven fu costretto per sopravvivere, a venire a patti con il potere costituito. Ma una nuova alternativa si profilò all’orizzonte ai regimi tirannici e questa fu il Regno Unito. L’interesse da parte di Beethoven verso quel Pese fu già consistente quando il duca di Wellington sottrasse al regime napoleonico la penisola iberica. Fra l’agosto e il settembre 1813 il compositore compose, dedicandola al principe reggente dell’Inghilterra, il futuro Giorgio IV, la “Wellingtons Sieg” Opus 91 e, infine in quegli anni Beethoven armonizzò tanti canti popolari provenienti da quell’area geografica. Ben presto si rese conto che all’interno della società politica di quella nazione ci fu qualcosa di diverso rispetto alle tirannie del resto d’Europa, essa infatti fu, prima fra tutte, governata da un sistema parlamentare. Durante il regno di Giorgio IV dal 1820 al 1830 si ebbe poi una svolta liberale. L’emancipazione civile e politica dei cattolici fu infatti seguita dalla libera associazione degli operai che si riunirono nelle prime Trade Union e, se Beethoven non fosse scomparso, avrebbe potuto assistere già con il successore Guglielmo IV, alla riforma del sistema elettorale che allargò il suffragio alla media borghesia e sancì la definitiva affermazione del regime parlamentare. Ma lascio parlare ancora una volta Luigi Magnani: « (…) L’Inghilterra non fu per Beethoven la terra dei sogni, l’ultima Thule, ma il paese in cui i suoi ideali politici, le sue aspirazioni sociali avevano trovato concreta, storica realtà; (…)Su di un foglio d’album egli aveva allora scritto, ad affermare il credo a cui rimarrà fedele tutta la vita: “Fare il bene che si può, amare sopra ogni cosa la libertà, mai rinnegare il vero, neppure dinanzi al trono” (…) A disagio nella Vienna di Metternich, tutta corte, sbirri e burocrati, ostile ad un governo reazionario che mirava soffocare negli animi persino lo spontaneo anelito dell’unità tedesca, Beethoven non nasconde la sua ammirazione per l’Inghilterra che aveva saputo conciliare la coscienza individuale con l’aspirazione sopranazionale, trovato equilibrio e armonia tra gli ideali politici ed umani. Essa infatti brillava nel cielo delle speranze liberali da quando, per la saggezza dei suoi reggitori, espressione di una manifesta volontà popolare, non solo si astenne dal partecipare alla Santa Alleanza ma, ricusando l’ufficio di guardiana della Restaurazione e di protettrice dell’assolutismo, prese ad incoraggiare i moti costituzionali e d’indipendenza nazionale, sostenendoli talora con la forza come quando, durante il governo di Canning, aveva inviato appoggio militare alla Grecia in rivolta contro la dominazione turca. (…) »
  7. L'unica opera per il teatro lirico composta da Beethoven è il Singspiel “Leonore - Fidelio”, opera che, fin dalla sua genesi, ebbe una ricezione assai controversa. Oggi se questa controversia all'estero è stata completamente superata, altrettanto non si può dire in Italia, dove i teatri lirici, dominati dai sostenitori del bel canto che con pregiudizi duri a morire, vedono in Beethoven un compositore che non ha mai saputo trattare con le voci, pregiudizio solo in parte accettabile e che fortunatamente, negli ultimi anni, da parte di esperti musicologi e di voce è stato ricondotto nella sua giusta analisi. Beethoven dovette mettere mano alla partitura e al testo di quest'opera, prima chiamata “Leonore” e poi “Fidelio” per ben tre volte e, questo, per arrivare con la sua terza versione del 1814 ad un successo soddisfacente. In Italia però, per apparire la prima volta il “Fidelio” dovette attendere fino al 1883, anno in cui fu dato a Milano al Teatro Dal Verme e questo, la dice già lunga sul rapporto fra il pubblico del Bel Paese e l'unica opera teatrale beethoveniana. La prima versione della Leonora, pubblicata solo nel 1905, venne eseguita invece solo nel 1970 – in occasione del bicentenario della nascita del compositore – anche se non in forma scenica, a Torino all’Auditorium R.A.I., mentre per la sua messa in scena, bisognò attendere il 1979 a Genova al Teatro Margherita. Eppure…! Eppure l'opera di Beethoven sia nella sua versione prima come “Leonore”, sia nella sua versione definitiva come “Fidelio” è veramente un grande capolavoro degno di stare assieme agli altri grandi capolavori dei grandi operisti di ogni secolo e di ogni nazione. Ma la “Leonore - Fidelio” non è “solo” bellissima musicalmente parlando, è anche importante per il suo contenuto, il suo significato: un inno alla libertà da ogni tirannia e un inno all’amore coniugale. Già nel 1978, recensendo l’opera che fu rappresentata alla Scala di Milano sotto la direzione di Leonard Bernstein, Massimo Mila così scrisse: « (…) È certo che Mozart e Verdi avrebbero ingranato meglio le scene di commedia del primo atto, ma sarebbero poi impalliditi d’invidia e avrebbero pagato parecchio per raggiungere non solo l’altezza musicale, ma anche la travolgente e tradizionalissima funzionalità drammatica che Fidelio consegue, a partire dal coro dei Prigionieri, nella colossale scena della cella sotterranea dove Fidelio-Leonora salverà il marito Florestan dalla morte difendendolo contro il bieco governatore Pizarro. Dai colori cupi del carcere, dall’aria iniziale del prigioniero languente, dall’ansia di Leonora che riconosce nel prigioniero il marito, dalla pietà impotente di Rocco che gli scava la tomba pur avendone compassione, si sviluppa a poco a poco un nodo fiammeggiante di musica drammatica d’uno spessore di esperienze interiori che non ha l’uguale, nemmeno nelle più dense concezioni wagneriane. Sono davvero tutti gli ideali in cui Beethoven credeva – amore coniugale, consolazione nella famiglia, insopprimibile esigenza della libertà dell’uomo – che qui si accendono in una colata pazzesca di lava incandescente (…) la scena ha valore universale e tremendo di ribellione eversiva contro qualsiasi sopruso della terra: chiunque abbia mai avuto, nel suo piccolo, l’onore di patire ingiustizia, ci si ritrova. E se più avanti, nel finale dell’opera, i canti di liberazione prendono un nobile tono di celebrazione idealistica, qui, nella stretta forsennata dell’insurrezione di Leonora, è invece il momento della giustizia come vendetta, il momento in cui tutti i tiranni si impiccano ai lampioni delle strade, ballandoci sotto la Carmagnola, e tutto questo potenziato, moltiplicato per la furia gigantesca d’un carattere come Beethoven, che nella realtà non avrebbe fatto male ad una mosca, ma nella immaginazione si esaltava fino alla più fiammeggiante temperatura dell’eroismo plutarchiano.» Beethoven arrivò alla conclusione di questo suo Singspiel solo nel 1805. Prima non aveva mai affrontato questo repertorio, non perché temesse il confronto con quel genere, come molti affermano, ma molto più semplicemente perché non trovò mai uno stimolo sufficiente per farlo. I modelli allora in voga si riferirvono, da un lato, all’opera italiana che il compositore tedesco non amò, dall’altro, all’opera tedesca che ebbe il suo ultimo grande frutto nel Singspiel “Die Zauberflöte” di Mozart. Beethoven considerò quest'opera il massimo capolavoro per il teatro composto dal salisburghese ma, dal 1791, anno del suo concepimento, molte cose erano già cambiate nel modo d’intendere il teatro musicale e il linguaggio fantastico - favolistico usato da Mozart – a quei tempi tanto in voga e indispensabile – era già considerato obsoleto, quando Beethoven cominciò a pensare di comporre un'opera. Il caso volle che proprio il librettista di “Die Zauberflote” Emanuel Schikaneder, rappresentasse a Vienna il 23 marzo 1802 la “Lodoiska” di Cherubini. Per Beethoven fu amore a prima vista, e non solo per quell’opera, ma per la musica in generale di Cherubini che da quel momento, come egli scrisse al compositore italiano in una lettera vent’anni dopo sarà: « (…) sempre colui, che fra i miei contemporanei, stimo di più. (...) » Ma cosa aveva di speciale la “Lodoiska” da far così entusiasmare il grande compositore tedesco? Essa le rivelò il potere espressivo e retorico contenuto nella drammaturgia musicale che si sviluppò in quegli anni a Parigi e che ebbe il via dalle rivoluzionarie atmosfere di Gluck, incalzate e sferzate poi dai ritmi della Rivoluzione francese e dal tragico clima del terrore purtroppo a lei seguito. Fu lo stesso Skikaneder a proporre a Beethoven un libretto “Vestas Feuer” (Il fuoco di Vesta) un'opera eroica in due atti. Presto però, il maestro si rese conto che il canovaccio era assurdo e noioso e, dopo averne musicato una prima scena, alla fine del 1803, lo abbandonò. Il primo passo era comunque stato fatto e il desiderio di dedicarsi alla musica non solo strumentale era forte in lui; nel giro di 14 giorni compose le musiche dell’Oratorio “Christus am Olberge”.(Cristo sul Monte degli Ulivi). Già da questa suo primo lavoro a sfondo sacro, il genio di Bonn dimostrò quali erano le sue idee in merito. Beethoven andò esplicitamente oltre il concetto classico di sacro, distinguendosi completamente, anche in questo, dai suoi predecessori. Egli non si limitò a musicare un testo sacro ma, attraverso esso, volle lanciare un messaggio di libertà, di pace, di fraternità a carattere universale ai contemporanei e ai posteri. E se questo suo modo di esprimersi, trovò la sua massima apoteosi e compiutezza strutturale e musicale in quel monumento assoluto di musica sacra che è la sua “Missa Solemnis” Opus 122 e nell’altro monumento laico che è la “Nona Sinfonia”, già nell’oratorio “Christus am Olberge” ci furono quelle premesse tanto care a Beethoven. Anzi si può a giusta ragione dire che esso fu la premessa proprio del Singspiel “Leonora-Fidelio”, infatti il libretto che Franz Xaver Huber preparò sotto lo stesso controllo di Beethoven, con la descrizione dell’arresto di Gesù nell’orto, il concitato confronto con Pietro e il bellissimo coro finale di lode all’Onnipotente liberatore, anticipò nel meccanismo tragico, la situazione in cui Beethoven si trovò l’anno dopo con l’azione della “Leonora - Fidelio. Le arie di Gesù, del Serafino, la marcia col coro “Wir habenihngesehen”, l’eccitato grido della turba, “Hier ist , hier ist”, preludono le arie, i concertati e i cori del Fidelio. Nel suo insieme e nella sua funzione “Christus am Olberge” allude ad una “passione” che assomiglia più a quella di Florestan e di Leonora, che non a quella di Gesù e dunque ad una passione assolutamente laica e, nell'affermare questo, è importante ricordare che nella mente di Beethoven, la figura di Gesù fu accostabile e paragonabile, alla figura di Socrate, ed è abbastanza indubbio che anche ciò ebbe una sua influenza nell’impostazione che il compositore diede all’oratorio e come vedremo in seguito della “Missa Solemnis”. Iniziò da parte del compositore, la ricerca di un soggetto giusto per un’opera, ricerca che si rivolse dunque al genere francese da lui prediletto che dopo la Rivoluzione francese gli offrì quegli elementi di rinnovamento linguistico a lui necessari. Il punto di partenza fu proprio là dove Mozart finì il “Die Zauberflöte” e, questo, per riaffermare nella loro interezza quegli ideali, quei simbolismi della vittoria della luce sulle tenebre, intesa, in Beethoven, come metafora di riscatto di un'umanità da secoli umiliata e tiranneggiata. Per fare questo, proprio perché l'era del Singspiel in forma favolistica era tramontata, Beethoven ebbe la necessità di portare la storia in un ambito reale e non fantastico, dove ad agire fossero persone in carne ed ossa. E’ da questi presupposti che un testo come “Léonore où l’amour conjugal” di Jean Nicolas Boully cascò a pennello, corrispondendo in pieno a quelli che erano tutti i suoi fini. Con questo tema egli trovò infatti la maniera di rendere i personaggi di “Die Zauberflöte”, persone reali. Egli era persuaso – come lui stesso asserì - che Fidelio fosse addirittura la: « (…) naturale conseguenza del Flauto magico, e che Florestan e Leonore siano Tamino e Pamina, rinati come esseri umani, e costretti a fronteggiare in quanto realtà ciò che prima avevano conosciuto soltanto in forma di simbolo. (…) »
  8. secondo voi come si dovrebbe scrivere di storia della musica? la storiografia di sinistra è ben diversa non sono termini per cui impazzisco, ma sono di uso abbastanza comune. la storiografia di sinistra è ben diversa non sono termini per cui impazzisco, ma sono di uso abbastanza comune. Riassumendo, la storiografia di sinistra si concentra sulla sociologia, sugli scenari economici e sociali; la storiografia di destra sui personaggi. praticamente tutto il repertorio di cantus planus (cosiddetto gregoriano) non ha autore. E parliamo di secoli e secoli di musica. Nel nostro ipotetico libro di storia della musica, di cosa parliamo arrivati lì? Di altri autori medievale, e perfino rinascimentali, sappiamo ben poco, e spesso le notizie sono così dubbie da diventare, appunto, mitografia. Cosa facciamo lì? Tu hai sottolineato una cosa molto giusta, traendone, secondo me, la conseguenza sbagliata: la musica è fatta di opere, ma non necessariamente di autori. Che si parli di opere, allora. (Claudio) Comparare più fonti tenendo conto delle necessità antropologiche e in modo trasversale considerando il campo Artistico, Culturale, Religioso-Rituale e Linguistico. (Xenakis) Quello di Xenakis mi sembra un approccio molto vicino a quello dell'etnomusicologia (Frank) Ma non ti pare – è ciò che ti chiedo – che ‘destra’ e ‘sinistra’ possano fecondamente stare insieme? (Luca) « La vasca da bagno è di destra e la doccia di sinistra » più o meno recitava così una canzone di Giorgio Gaber fra le tante altre cose. A me questo gioco di destra e di sinistra, a differenza di Claudio, piace tanto e lo trovo pertinente perché, a differenza di tanti benpensanti dei giorni nostri che ritengono essere questi due termini un retaggio del secolo scorso ormai superato, penso che destra e sinistra esisteranno almeno finché esisteranno i primi, i secondi, i terzi, i quarti ... gli ultimi. Solo quando l'umanità raggiungerà – semmai la raggiungerà! – una sostanziale uguaglianza, destra e sinistra non avranno più alcun senso. Non vogliamo chiamarli destra e sinistra ma Paperone e Pippo? Va bene! Non è questo il problema: il problema è che o si sta con Paperone o con Pippo, e finché ci saranno entrambi io starò con Pippo, parteggiando come ci invitava Gramsci e come ricordato da Otello. Detto ciò, come la vasca da bagno e la doccia possono coesistere in uno stesso ambiente, altrettanto penso sia giusto e opportuno che le opere e gli autori facciano altrettanto, però con al centro le opere e un po' in penombra gli autori. Se è vero che secoli e secoli di musica hanno prodotto musica di autori anonimi e, di conseguenza, anche capolavori di autori anonimi - penso fra tutti al “Ludus Danielis” di anonimo di Beauvais del XIIesimo secolo, ai "Carmine Burana", non quelli di Orff naturalmente ma quelli originali del 1200 - è pur anche vero che sostanzialmente dal 1600 in avanti tutta la musica, almeno quella che ha contato nel cammino della sua storia, ha dietro un nome e un cognome, e, ingiusto e parziale sarebbe l'ignorarlo per motivi che ho già espresso in altri argomenti. Una storia della musica di sinistra dunque come dovrebbe essere? Facciamolo dire a Giordano Montecchi, insegnate di Storia della musica all'università di Bologna, nonché critico musicale dell'Unità. Giordano Montecchi ha scritto 15 anni fa in due volumi “Una storia della musica” Bur editore, proprio « perché, pur assomigliando a quella che un tempo si chiamava “Storia della musica” tout court, muove dalla convinzione che tutte le storie che vengono scritte scaturiscono sempre, per forza di cose, da un punto di vista e siano quindi tutte provvisorie e da riscrivere. (...) la disciplina storia della musica possiede una vasta articolazione di prospettive e metodologie, che accanto ai “grandi compositori”, giocano un ruolo altrettanto importante: elementi come i diversi stili, i generi, le forme, le diverse nazionalità, i rapporti con le condizioni culturali e sociali delle varie epoche. Anche a questo livello e forse in maniera ancora più accentuata, la nozione di storia della musica rientra tuttavia nei confini di ciò che è ovvio e risaputo. Essa è la disciplina cui compete un ampio ventaglio dei temi e di compiti, che si occupa delle civiltà musicali antiche, del canto gregoriano, dei trovatori, dei fiamminghi, dello stile barocco, delle concezioni estetiche del Romanticismo; ma ugualmente studia anche l'evoluzione della notazione, le trasformazioni della teoria musicale, il mutare delle condizioni dei musicisti in seno alla società, la concezione delle avanguardie; inoltre essa ha a che fare con i problemi posti da discipline attigue come la filologia del testo e della prassi esecutiva, l'etnomusicologia, l'analisi musicale e altre ancora. Ciò che di solito rimane in ombra, o quantomeno in secondo piano, è invece la questione fondamentale, vale a dire la storicità di tale nozione. La storia della musica, in altre parole, ha essa stessa, in quanto disciplina, una storia, una genesi, un susseguirsi di profonde trasformazioni nelle sue premesse e finalità. Queste trasformazioni sono legate certamente al divenire dello sfondo filosofico e teorico del mutamento del quadro sociale e culturale entro cui esse hanno luogo. Ma, all'interno di questo quadro generale, bisogna tenere presente che la storia della musica si modifica innanzitutto in quanto si modifica il proprio oggetto: la musica stessa. In fin dei conti è il modificarsi della nozione di musica che determina una storia della musica. » Ciò detto, mi pare del tutto evidente che “una storia della musica” dovrebbe essere innanzi tutto scritta da tante mani, non solo perché nel suo ambito, c'è chi più esperto di musica antica, chi di musica barocca e via discorrendo, ma perché richiede l'apporto di tanti “professionisti” non solo musicali. Storici della musica e musicologi certamente in primis ma, proprio perché essa è collegata con la storia tout-court, con la filosofia, con tutte le altre arti, con la poesia e la letteratura richiede l'intervento di esperti di queste materie che sappiano mettere il tutto in relazione. Ad esempio “una storia della musica” non può prescindere dall'importanza della poesia che durante il Trecento, il Quattrocento e il Rinascimento la investì. Come non può prescindere dalla pittura che in tanti suoi capolavori “parla” espressamente di musica. « “La pittura trasforma lo spazio in tempo, la musica trasforma il tempo in spazio.” L'aforisma di Hugo von Hofmannsthal (...) lega insieme le due arti in un rapporto di complicità, come se vi fosse in atto, da sempre un progetto segreto e addirittura eversivo di trasformazione del mondo. Quel progetto esiste sin dalle origini del comunicare in termini di civiltà. Si pensi ai dipinti murali nelle tombe egizie, in cui la gerarchia dell'universo si compone finalmente in forme perfette ed eterne al confronto con il mutevole e caotico divenire delle cose reali,e, con un balzo attraverso la storia dell'altrettanto cosiddetto homo sapiens, riflettiamo sulla funzione messianica del tristan-Akkord, grazie al quale dal 1865 in poi è divenuto possibile capire come un accordo caratterizzato da un anomalo sol# subisca una transustanziazione e si trasformi in filtro d'amore tale da mutare irreversibilmente la nostra essenza antropologica, o come un pedale di mib non “rappresenti simbolicamente” ma “sia ontologicamente” l'origine del cosmo, o ancora, come alla fine del primo atto di Parsifal il tempo si trasformi davvero in spazio. » (Quirino Principe) Ecco, i miei due occhi hanno già ritrovato tutta la forza di un tempo, e con le mie due orecchie odo le armonie nascenti dall'Ordine divino dell'Universo. Come Râ, navigo nell'oceano del tempo (Libro dei morti dell'antico Egitto)
  9. ... il peso storico delle Passioni è immensamente maggiore rispetto al peso storico delle cantate profane. Il discorso su Bach si è insinuato anche in altri miei commenti, quindi do un cenno per chiarire la mia posizione: noi consideriamo Bach come un punto, appianiamo il livello ARTISTICO di tutte le sue composizioni e diamo loro lo stesso PESO STORICO. Ma questo è errato. I diversi secoli hanno "scelto" pezzi diversi di repertorio bachiano, dando loro valori diversi, pesi diversi (e interpretazioni diverse). E questi pesi sono diversi anche rispetto ai pesi che lo stesso Bach dava alle sue composizioni: come al solito bisogna ricordarsi che la parte più consistente del catalogo bachiano è fatta di cantate! Noi, invece, abbiamo formato generazioni di pianisti sulle Suite Inglesi e generazioni di compositori sui corali...(Claudio) Bene Claudio, questo è il tuo punto di vista sul quale potrei dire che sono d'accordo e non sono d'accordo. Cercherò di spiegartene il perché. Sono perfettamente d'accordo quando affermi che non tutto Bach sia artisticamente allo stesso livello, negarlo sarebbe una sciocchezza ma, penso sia altrettanto essenziale a questo punto, affermare che questo discorso riguarda tutti i grandissimi compositori e, quando dico tutti, intendo proprio nessuno escluso. Così come è esistito un Bach minore e maggiore si può dire altrettanto di Mozart, Beethoven, Wagner etc. Lo dico non per un eccesso di pignoleria ma perché conosco tanti che affermano che in Mozart tutto è grande e non banale e, anche questa, è una grossa sciocchezza. Precisato questo, se è indubbio che le Passioni – almeno quelle due che a noi sono solo purtroppo pervenute – nel repertorio bachiano rappresentano una vetta himalayana, è altrettanto vero che un conto è paragonarle alle cantate profane e un conto è paragonarle a quelle sacre. Lo dico per un eccesso di voglia di chiarire perché, nel tuo discorso, poi sembra tu ne faccia un unico fascio affermando « che la parte più consistente del catalogo bachiano è fatta di cantate ». A fronte di circa 196 cantate sacre, si annoverano solo 16 cantate profane: se si pensa che il contemporaneo compositore tedesco, Telemann, considerato più famoso e più grande in quei tempi di Bach, ne compose ben circa 2000, non è poi che il numero di quelle di Bach sia così cospicuo e, questo anche se lo si proporziona al catalogo complessivo di entrambi i compositori. Ma detto ciò, quello che mi preme qui ricordare è che con le cantate sacre, Bach raggiunse stupefacenti conclusioni musicali, con una vocalità che solo a tratti e ad osservatori superficiali – non sto ovviamente parlando di te Claudio, ma il mio vuole essere un discorso di carattere generale – può sembrare manierata: adesione perfetta al testo, anche nei momenti di grande virtuosismo che spesso sono sostenuti dalla presenza di uno o più strumenti obbligati in gara con la voce. Si tratta di centinaia di arie degne di figurare in vere e proprie antologie. Bach non è mai gratuito o pleonastico, ma richiede impegno e partecipazione, consapevolezza artistica e umiltà. Bach oggi ci appare come uno spirito universale, che ha abbracciato in eguale misura la sfera religiosa e la sfera profana della musica, in un modo in cui l'elemento spirituale e l'elemento mondano costituivano ancora un'unità. Capire la regola dei contemporanei di Bach, per esempio, significherebbe rassegnarsi all'idea che in superficie Bach è moooolto conservatore. C'è gente che lo considera il padre del contrappunto, quando piuttosto è stato l'ultimo dei figli (in senso cronologico). (Claudio) A me, Claudio, la parola conservatore non pare quella giusta. Preferisco definire il modo di comporre di Bach con una maniera tanto cara a Fedele D'Amico: un « sintetizzatore » della sua epoca. Qui si è parlato di due miti del romanticismo relativi uno, alla figura di Beethoven e l'altro, alla figura di Mozart. Una parte dello stesso Romanticismo considerò la musica di Bach « arcaica » (ti ricorda qualcosa questo? ) e questo pensiero non può che essere spiegato solo con un sostrato di incomprensione. Se Bach non fosse stato un sintetizzatore del suo tempo si sarebbe piegato alla moda dello stile galante allora in voga, come fece Telemann, oggi giustamente relegato ad un ruolo molto minore e, se fosse per me, starebbe ancora più giù, nonostante ogni tanto si tenti di rivalutarlo. L'epoca dello stile galante è, dal mio punto di vista, uno dei periodi musicali più scadenti e per fortuna che Bach padre – a differenza dei suoi figli – non vi si assoggettò perché, oggi se no, non staremmo qui a parlare di uno dei massimi geni della musica. Chi sostiene poi che Bach fu il padre del contrappunto dice un'altra sciocchezza. Il contrappunto però è variato assai a seconda delle epoche e, il contrappunto tonale giunse al suo apice nei secoli del Barocco e Bach ne fu il sommo sacerdote: la sua forma più celebrata e unitaria, la Fuga. L'ho già detto e lo ripeto: oggi, col senno del poi, possiamo affermare che Bach fu passato, presente e futuro. Dopo di lui trionfò l'omofonia e, se con Haydn e Mozart ci furono i primi, di tanto in tanto, risvegli della polifonia, questo recupero in Beethoven fu più tenace e meditato. Beethoven compose la sua musica col fine di essere l'erede di tutta la musica europea fin dal suo inizio. Avrebbe voluto essere il fautore di tutta una sintesi di epoche solo apparentemente inconciliabili ma, questo suo progetto venne veramente realizzato un secolo dopo da Schönberg e Stravinskij e, questo a dispetto dei loro percorsi musicali diametralmente opposti ma intersecanti: essi sono veramente gli eredi integrali ( e probabilmente gli ultimi) di tutta la storia della musica. Ma questi sono già altri discorsi! Su come scrivere una storia della musica ci vediamo di là! Ciao Claudio!
  10. Caspita, potrebbe essere veramente così Claudio! Non ci avevo pensato, sarà perché ho sempre trovato abominevole l'immagine che fu costruita e che molti ancora hanno su Mozart: quella di un ragazzo molto leggero, disinteressato, burlone, fanciullesco, seppur assolutamente geniale. Bisogna però dire che, anche in questo caso, come in quello di Beethoven: alla costruzione di questa immagine romantica contribuì, in una qualche misura, lo stesso Mozart: penso alle famose lettere alla cugina e alla sua vita assolutamente libertina. Questo falsa mitologia fu poi riproposta ancora nel 1984 – dunque in tempi ben lontani dal Romanticismo – quando il regista Milos Forman fece il celeberrimo e assolutamente sopravvalutato film su Mozart dal titolo “Amadeus” tratto da un testo teatrale di Peter Shaffer che, a sua volta, lo trasse da un racconto di Puskin che si ispirò a sua volta alla biografia mozartiana di Stendhal. Il film registrò un grande successo di pubblico e vinse 8 premi Oscar e se ebbe il merito di far amare a tanti neofiti la musica del salisburghese, questo risultato fu però ottenuto raccontando due macro-falsità, e tante micro-falsità sulla vita e la personalità di Mozart: oltre a rinnovare l’immagine di un Mozart, musicista si geniale ma infantile, disimpegnato, burlone, con una risata da deficiente, si attribuisce al povero Antonio Salieri la causa della prematura morte di Amadé!
  11. Forse Claudio ti stupirò: ma ne sarei felice! E' ora di riscattare Beethoven da...Beethoven o, più esattamente dal paradigna che il suo mito ha contribuito a costruire. Solo così potrà veramente apparire in tutta la sua necessità, bellezza e sublimità, al di là dell'eccesiva influenza e dominazione che impose a un secolo e mezzo di storia della musica.
  12. La cosa che mi dispiace di più è che ho il timore che Otello abbia abbandonato la compagnia e mi piacerebbe tanto non fosse così. Tu Luca vedi il fanatismo in quella frase: sicuramente così impostata è indubbiamente molto forte. Però c'è un'altra frase che avrei voluto chiedere ad Otello come interpretarla ed è questa: « Mozart ci costringe con nostro grave disappunto a farci piccoli piccoli e innocenti. » Vorrei dunque chiederlo a te, a Claudio o a chiunque abbia voglia di rispondermi a questa domanda. Dal mio punto di vista potrei leggerla con due chiavi di lettura sostanzialmente contrapposte: la prima è che ci costringe con la sua musica a retrocedere ad uno stato infantile – e in questo caso sarebbe una chiave di lettura negativa o, almeno tale la percepisco – e se è così, mi domando: perché? in che senso? Oppure piccolissimi e innocenti per la sua grandezza nei nostri confronti di uomini normali e, se fosse questa la chiave di lettura giusta, qui rasenteremmo veramente il fanatismo. Oppure......?????? Però Otello ha detto che Savinio considerò Bach e Mozart i più grandi dell'età “tolemaica”... e dunque?? Ditemi voi, se vi va!
  13. Perfetto quello che scrivi Claudio! Dopo la morte di Beethoven nacque immediata l'esigenza di ricostruire la biografia del compositore. I primi scritti apparvero nel 1838 e si trattò di un volumetto biografico-memorialistico ad opera del medico Franz Gerhard Wegeler, amico fin dall'infanzia di Beethoven, e del musicista Ferdinand Ries, allievo di Beethoven fin dal 1803. Nel 1840 apparve poi la prima imponente biografia vera e propria di Anton Schindler, famulus di Beethoven dal 1812 alla sua morte. Questa biografia è in realtà, piena di falsificazioni, fatti storpiati o inventati dallo stesso Schindler e, già tutto questo contribuì, a creare delle mistificazioni, delle falsità circa la personalità di Beethoven. D'altra parte fu lo stesso Beethoven, a creare i presupposti per tutto ciò. In una lettera del 1825 egli scrisse infatti che, mai e poi mai cercò di smentire qualsiasi notizia, vera o falsa che fosse, detta su di lui: l'esempio più eclatante fu, quando per via del van del suo cognome, qualcuno lo pensò di origine nobiliare, egli si avvide bene di smentire tutto ciò anche perché, questo, gli tornò comodo per la sua causa intentata contro la cognata per l'affidamento del di lei figlio, nonché suo nipote. Ma c'è un altro modo in cui il comportamento del compositore permise la nascita del mito: le frasi che spesso lui scrisse sul suo diario o nelle sue lettere. Frasi che aiutarono il movimento romantico a dipingerlo come un eroe che per la propria arte sacrificò tutto. Non dimentichiamo che i “figli di Beethoven”, i suoi successori, riconobbero solo la sua grandezza attraverso le musiche del suo secondo stile, detto anche “stile eroico”, mentre non compresero le immense opere del suo terzo stile. Ma facciamo raccontare a Giovanni Carli Ballola, dalla sua biografia beethoveniana, sommariamente cosa poi accadde: « Beethoven proietta la sua immensa luce su tutta la civiltà musicale del XIXesimo secolo, anche se, come tutti sanno in una parte più, e meno altrove. La sua presenza fu avvertita come quella di una divinità redentrice e tutelare, e i romantici guardarono a lui non tanto come al precursore, quanto a uno di loro, il primo e il più grande. Nulla rimane più indicativo, a tale proposito, del celebre passo contenuto nel saggio sulla “Musica strumentale di Beethoven” che Hoffmann incluse in Kreisleriana e pubblicò nel 1814, vivente e operante il Maestro: « La musica di Beethoven muove la leva del terrore, dell'orrore, dello spavento, del dolore, e suscita appunto quel desiderio nostalgico e infinito che è l'essenza del Romanticismo. Egli è perciò un compositore squisitamente romantico: e non potrebbe essere questa la causa per la quale gli riesce meno bene la musica vocale, che non consente il carattere di nostalgia indefinita, ma solo rappresenta con parole sentimenti determinati provati nel regno dell'indefinito? »; dove non potrebbe essere rivelato in termini più chiari quel processo di mitizzazione che, mediante le capziose interpretazioni, culminerà con gli scritti di Richard Wagner attraverso gli eroici furori di Berlioz e le schumanniane battute di caccia ai reconditi sensi celati nelle Sinfonie e nelle Sonate. Il movimento romantico naturalmente mise a fuoco soltanto quegli aspetti dell'opera beethoveniana, come la tragica desolazione o l'eroica protervia o ancora il panteistico donarsi agli incanti della natura, che potevano coincidere con il Beethoven mitico e leggendario succeduto a quello della storia e soltanto in parte identificabile in questo. Di Beethoven si volle ignorare la formazione illuministica, il sostanziale ottimismo, la fede nell'uomo e nella ragione,e, ovviamente, la sua stessa diffidenza nei confronti del movimento romantico; così come passarono in secondo piano altri aspetti peculiari della sua arte, come la salubre e rude allegrezza e l'umorismo. Oltre che il suo messaggio spirituale, la sua personalità umana, il contenuto ideale della sua opera, venne fraintesa anche la sua rivoluzione nel campo della forma: vi si volle vedere solo l'anelito a una libertà individualistica, l'irrefrenabile impulso di un ribelle insofferente degli schemi tradizionali, laddove si trattava innanzi tutto della creazione di nuove dimensioni formali, di nuovi ed estremamente più complessi ordini costruttivi. »
  14. Ciao caro Luca e ciao a tutti quanti leggeranno! Quando a dodici anni si ascolta una musica – qualunque essa sia – non ha nessuna importanza sapere se sia stata composta in quei giorni o in un tempo indefinito. Quello che ha solo importanza è che quella musica ci suona bene nelle orecchie, ci emoziona, ci trasmette piacere perché, in definitiva, la musica ci deve dare questo. Che poi a farlo sia la canzone che, a sorta di tormentone, ci viene propinata dalla radio non so quante volte al giorno, o la sinfonia che ci ha fatto ascoltare qualcuno, dipende dall'indole del fanciullo. Ma questo,dal mio punto di vista, non vuol dire decontestualizzare la musica, vuol dire più semplicemente ascoltare la musica e vedere l'effetto che fa. Decontestualizzare un'opera d'arte è tutta un'altra cosa ben più complessa e articolata che comporta una conoscenza dell'opera in una certa maniera e che, soprattutto, non può essere affrontata da una mente fanciullesca. Decontestualizzare un'opera vuol dire, domandarsi cosa questa musica composta e concepita con dei metodi completamente diversi da quelli in voga oggi, possa dire, innanzi tutto a noi personalmente e poi, a tutta l'umanità. Tu poi Luca, hai il privilegio di poter leggere uno spartito e seguire la musica con quello. Ebbene, se non contestualizzi la musica nella sua epoca e non la raffronti con i compositori ad essa contemporanei, come puoi poi affermare che questa e non un'altra, che quello e non un altro, è la musica, il compositore più grande o, quello che preferisci? Ma al netto di questo privilegio, anche solo ascoltandola e avendo un'idea sull'evoluzione della materia sonora all'interno della storia della musica, come potrai mai dare risposte convincenti, se non conoscerai quel determinato periodo storico, la personalità psicologica del compositore almeno sommariamente? Prendiamo alcuni degli infiniti esempi che potrei fare per sostenere la mia convinzione e per spiegare meglio cosa intendo. Mettiamo che tu decida di ascoltare in ordine tutte le sinfonie da Haydn in avanti e dunque, tu abbia ben notato che tutte finiscono, sostanzialmente, con un Allegro. Poi improvvisamente ti trovi davanti alla Sesta Sinfonia “Patetica” Opus 74 del 1893 di Čajkovskij che finisce con un meraviglioso “Adagio lamentoso”, mentre il terzo movimento, solitamente uno Scherzo, è invece quell'Allegro molto vivace che dovrebbe essere l'ultimo movimento – accade spesso che, nelle esecuzioni di questa Sinfonia, il pubblico applaude dopo il terzo movimento come se fosse la fine - Una lunga pausa e poi ecco che iniziano le splendide note di questo “Adagio lamentoso”. Alla inevitabile domanda del come mai Čajkovskij che tutto fu, fuorché un compositore innovatore o rivoluzionario, abbia fatto questa scelta, lui per primo, per quella che fu la sua ultima Sinfonia, visto che morì solo pochi giorni dopo l'esecuzione della sua prima, solo contestualizzando in quella che fu la vita del compositore, le sue scelte sessuali, la terribile mentalità – per altro ancora purtroppo molto radicata – in una Russa ortodossa e ampiamente bigotta, si potrà cercare la risposta. Pensiamo al ciclo sinfonico e, più in generale, a tutta la musica di Gustav Mahler. Ma come mai potremo cercare di comprendere questa musica senza inquadrarla nel clima storico di fine 800, inizio 900, caratterizzato da un sostanziale male di vivere e dalla sensazione che presto ci sarebbero state catastrofi immani? Ma come potremo farlo anche senza sapere nulla del compositore, del suo essere ebreo ed essersi convertito al cattolicesimo, della sua infanzia terribile, del disastroso matrimonio con Alma, della sua seguente impotenza e, infine, della prematura morte dell'adorata figlioletta? Se non riusciamo a conoscere queste cose non potremo mai dare risposta al fatto che questo, grandissimo compositore, scelse di fare Sinfonie che fossero « la costruzione di un mondo, attraverso tutti i mezzi e gli espedienti possibili di cui posso avvalere ». Sinfonie che diventarono per la loro lunghezza dei veri e propri romanzi musicali, “sporcate” - notare le virgolette – da bande militari di trombe e tromboni, percussioni che rispondono ai suoni irreprimibili di una marcia per la maggior parte composta da ottoni e legni, gong, celesta, tamburi e tamburelli, nacchere, xilofono, triangolo, piatti e, addirittura il campanaccio delle mucche. La stessa cosa vale per Šostakovič: è possibile avvicinarsi a questo gigante del Novecento senza sapere nulla del suo travagliato rapporto con il potere sovietico e stalinista in particolar modo? Perché una sinfonia come la sua quarta – che è geniale – ad esempio, egli decise di non presentarla nel 1936 – anno della sua concezione – ma solo nel 1957. Solo entrando nei suoi meandri psicologici potremo comprendere il perché egli, a differenza di Stravinskij, decise, pur non condividendo nulla di quel potere, di restare in URSS, di aderire al PCUS e di sottomettersi fino al punto di condizionare il proprio modo di comporre e, ciò nonostante, producendo capolavori immensi. Ma poi infine Luca, usciamo dalla musica e andiamo a quel magnifico ponte pittorico con la musica che è “Il fregio di Beethoven” di Gustav Klimt che insieme abbiamo ammirato alla Secession di Vienna nell'agosto del 2009. Noi potevamo entrare lì e ammirarlo basandoci su « un rapporto tra (noi) e l’opera d’arte il più possibile ‘libero’: non mediato da guide all’ascolto, esegesi varie (più o meno autorevoli, più o meno “poetiche” o “tecniche”), e non mediato nemmeno da esternazioni e guide all’ascolto che provengano dallo stesso autore dell’opera. », dare sfogo ai nostri istinti e alla nostra fantasia. Ma, ripeto questo non è decontestualizzare un'opera, è solo un sano gioco di spontaneità e di confronto fra due o più sensibilità. Pensaci un attimo Luca, decontestualizzarlo noi lo abbiamo fatto Luca ma, solo quando? Dopo aver capito che quel trittico discendeva dalla parole di Wagner sulla Nona, inquadrandolo nel suo tempo storico e artistico e, lo abbiamo fatto scrivendoci pagine e pagine di blog! Dunque Luca, permettimi e scusami se molto amichevolmente insisto: “contestualizzare per decontestualizzare”, improponibile è il suo contrario.
  15. Premetto che conosco Savinio come pseudonimo del fratello del pittore De Chirico, so che fu un compositore – ma non ho mai avuto occasione di ascoltare la sua musica – ma non sapevo che fosse anche un critico musicale. Il mio scrivere dunque si basa unicamente su quanto qui riportato da Otello e su quanto ho appreso, leggendo su di lui, in un'enciclopedia della musica che, per altro, ha confermato quello che era stata la mia prima impressione nel leggere le frasi qui riportate. Dal mio punto di vista l'errore che accomuna entrambi i contendenti è la mancata contestualizzazione del pensiero di Savinio; questo porta da una parte Otello ad accettare acriticamente quanto da lui scritto e, dall'altra, Claudio e Luca, a criticarlo aspramente senza alcuna condizionale a suo favore. Gli scritti qui riportati risalgono al 1941 e risentono di quel clima di cui ho già largamente parlato ne “Il primato della musica”: da una parte quelli che cercarono di demolire il mito e il primato che Beethoven detenne fin dal Romanticismo nell'ambito della musica, portando in primo piano le figure di Mozart e Bach e dall'altra quelli che si schierarono a difesa e a favore del genio di Bonn. Savinio distinse, estraggo dall'enciclopedia della musica: « la musica prima e dopo Beethoven, tolemaica l'una e copernicana l'altra, diceva questa ancorata a codici e condizionamenti, questa assolutamente libera di esprimersi ». Se sicuramente gli aggettivi usati da Savino, oggi come oggi, ai nostri orecchi possono sembrare assurdi, è altrettanto vero che nella sua affermazione c'è anche una indiscutibile verità: la storia della musica si può dividere in prima di Beethoven e in dopo Beethoven o, più esattamente come afferma il maestro Sciarrino: « Dobbiamo affermare che Beethoven fa da spartiacque. Dopo di lui la musica tende a uscire dal tempo e a svolgersi in un campo sonoro. Il concetto di campo dice subito che siamo passati da criteri organizzativi di tipo acustico a criteri di tipo visivo e spaziale.». Ma non solo! Come afferma il musicologo Eduardo Rescigno: «La coscienza moderna impone ad ogni musicista, da Beethoven in poi, delle continue e travagliate scelte creative, nel senso che ogni composizione si costituisce ad esito individualizzato, diverso dalle precedenti opere dello stesso genere (siano Sinfonie o Concerti, siano Sonate o lavori cameristici e perfino opere teatrali): diviene cioè irripetibile. Quanto questo comportamento e destino sia strettamente collegato a quell'individualismo che è cardine fondamentale, portante, della concezione romantica è ben evidente: tuttavia, a ben vedere, è fenomeno prefigurato nettamente negli ultimi musicisti classici. » E vorrei vedere che non fosse così! Pensiamo alle ultime tre sinfonie di Mozart o alle grandi opere dapontiane, e al splendido “Die Zauberflöte”, o alle magnifiche sinfonie londinesi di Haydn, i suoi ultimi quartetti e ai suoi oratori finali. Dunque il ragionamento di Savinio, aldilà degli aggettivi, non è poi così lontano da tutto ciò. Discutibilissimo e assolutamente non condivisibile è quanto Savinio affermò su Bach. Sono sicuro che anche a quei tempi molti non furono con lui d'accordo ma, allora poteva essere lecito parlare in questi termini. Il discorso Vivaldi si fa poi più nebbioso in quanto, come ben si sa, del prete rosso, fino ad alcuni decenni fa, non si conoscevano che i suoi concerti, ignorando tutto il suo repertorio operistico e sacro. Non comprendo – limite mio sicuramente – i suoi giudizi sul resto dei compositori...ma non me ne rammarico molto. Mentre invece mi trovo sostanzialmente d'accordo con quanto scritto su Beethoven e, francamente, non capisco perché tu, Luca, scrivi « Qui mi pare siamo vicini al fanatismo ». Savinio parla di Beethoven in termini di grandissimo e di Uomo che è quello che in sostanza si sostiene ancora oggi. Vedi Trias, a tal proposito, ne parlavamo sempre nel “primato”, vedi tanti discorsi che ci siamo fatti fra noi. Il modo di esprimersi di Savinio – ripeto – può essere datato, ma in questa parte non c'è fanatismo, c'è invece una constatazione che continua, seppur descritta in altra maniera, ad essere una costante dei giorni nostri. Ma infine è a Otello che voglio rivolgermi per ritornare, finalmente, a quello che è il tema lanciato da Barbara. Otello, penso che anche tu converrai con me ora, che se Beethoven avesse dato retta ad Haydn, non avrebbe composto solo musica sacra ma, quartetti, sinfonie, sonate – come del resto fece – senza stravolgere troppo le regole date, la forma – sonata, e seguendo il dettato di natura. Quanto a Haydn, se ho ben capito Savinio non ne parla visto che tu affermi:« nonché Haydn, per forza di cose - nota di Otello ». Non so in che rapporti sei tu con questo compositore ma, la realtà è che di Haydn, dalla data della sua morte nel 1809 fin circa al 1950 si ebbe un'immagine che lo dipinse come un compositore degno di nota e rispetto ma assolutamente poco stimolante. I motivi sono diversi, a cominciare dal fatto che ebbe la sfortuna di incontrare nel suo percorso vitale, prima un Mozart e poi un Beethoven. Ma non ci fu solo quello! Quello che però voglio qui rimarcare è il mio invito ad approfondirlo come merita. Certo resta il fatto che se non ci fosse stato Haydn, Beethoven sarebbe stato un altro compositore!
  16. Ciao Otello, premetto che non conosco questo libro di cui parli e dunque la risposta che ti darò si baserà unicamente su quanto da te scritto, avrei bisogno di comprendere bene come interpretare questa parte del tuo discorso:" Per Savinio, l'amore per le musiche dei pre-beethoveniani, per queste musiche che non accrescono le potenzialità dell'uomo, ma che non creano nemmeno ansie, è un effetto della paura. Sono musiche che suonano in modo conservatore, statico, rassicurante. Sono musiche che suonano in modo conservatore, statico, rassicurante." Soprattutto mi riferisco all'effetto della paura a cosa è riferito!?! Grazie!
  17. A ben riflettere, e anche dopo aver letto i vostri commenti, devo dire che l'affermazione di Haydn si presta ad interpretazioni anche opposte fra loro. Se valutiamo la frase inserendola nel contesto della vita e della visione esistenziale del maestro austriaco (che era un fervente cattolico), allora è anche plausibile ritenere che Haydn volesse intendere che il compositore avrebbe dovuto temperare i suoi ardori e indirizzarli a comporre inni di gloria in excelsis Deo. Com'era ovvio, comunque, Beethoven ha pensato bene di andare in ogni caso per la sua strada. E ha fatto benissimo. (Otello) Prima di cercare di rispondere a Barbara, vorrei riprendere questo ultimo intervento di Otello perché, francamente, faccio fatica a seguirlo. Haydn fu certamente un fervente cattolico ma è anche pur vero che nel suo catalogo fra messe e oratori si è ben lontani dalla mole che compose Mozart che, altrettanto cattolico fu, ma sui generis. Fra il 1796 e il 1801, compose tre oratori che sono da annoverare come massimi capolavori: “Le ultime sette parole del nostro Salvatore sulla croce”, “La Creazione”, “Le stagioni” e dunque è il caso di dire: grazie a Dio che li ha creati ma, rimane pur sempre vero il che, il nome di Haydn, fu principalmente legato al fatto che egli fu il padre della sinfonia, del quartetto e della sonata e dunque soprattutto un musicista laico – mi si passi il termine – a tutti gli effetti. La verità è poi che come disse tanto tempo fa Richard Strauss – e purtroppo ancora oggi è in buona parte vero almeno per quanto riguarda Haydn -: « Si cerca ancora di scavare nella miniera preziosa di Mozart, ma in quella di Haydn ci sono forse ancora più tesori nascosti di quanto non si sospetti. ». Ma questo è già un altro discorso. «il compositore dovrebbe trattenere il suo estro e seguire la natura» Ho letto che era uno dei tipici consigli che davano a Beethoven alcuni ammiratori di Haydn e Mozart... ... com'è veramente la storia. Può essere? (Barbara) forse per "natura" si può intendere, in questo caso, le regole codificate (dell'armonia, della forma). Almeno, così mi pare. E riguardo al seguirle o meno queste regole, nella storia della musica è avvenuto un po' di tutto: rigido ossequio, spontanea fedeltà, tradimenti consapevoli, tradimenti inconsapevoli... il tutto a prescindere dalla bontà della musica che ne è venuta fuori. (Luca) Diversi interventi tutti interessanti, non so, ma non so quanto (o non riesco ad associarlo io - mio limite ovviamente) è stato tenuto conto che la frase provenisse da ammiratori di Mozart e Haydn. Io stavo cercando di immaginare uno che ha nelle orecchie Mozart e poi parla di "natura"... (Barbara) Innanzi tutto ciao Barbara, felice d'incontrarti! Hai ragione! Tu parli di « ammiratori di Haydn e di Mozart » e non dei compositori, di cui uno era già fra l'altro passato a miglior vita e, in parte, dal mio punto di vista ti ha risposto Luca, alla fin fine, quello che intendevano quegli ammiratori era sostanzialmente richiamare Beethoven al rispetto delle « regole codificate (dell'armonia, della forma) ». Ma, allora ti domanderai tu, perché chiamarla « seguire la natura »? Perché nelle idee e nel pensiero del periodo Classico e anche del periodo Romantico la Natura – con la N maiuscola – svolse un ruolo assolutamente centrale. Un poeta come Hölderlin, contemporaneo e amato da Beethoven, considerò la Natura alla stregua dell'armonia universale, della verità immanente, essa era bellezza e perfezione: la Natura non è vivente perché riceve vita, ma perché dà vita, non è divina ma il Divino. Il teologo e filosofo Johann Gottfried Herder (1744-1803) parlando in specifico della musica così si espresse: « E poiché essa in ogni piccola dissonanza sente se stessa, cogliendo nell'ambito angusto delle nostre limitate combinazioni di suoni e delle nostre tonalità tutte le vibrazioni, i movimenti, i modi, le accentuazioni dello spirito del mondo, dell'universo, è ancora possibile dubitare che la musica superi in efficacia interiore tutte le altre arti? Deve superarle, così come lo spirito domina il corpo: infatti la musica è spirito, affine all'energia più profonda della grande Natura, il movimento. » Anche lo stesso Beethoven influenzato dalle idee illuministiche ebbe una visione panteistica della Natura: « Onnipotente, nella foresta! Io sono beato, felice: ogni albero parla attraverso te – O Dio! Che splendore! In una tale regione boscosa, in ogni cima vi è pace, la pace per servire Lui – Nel bosco c'è un incanto – È come se in campagna ogni albero mi facesse intendere la sua voce dicendomi: santo santo! ». Da tutto ciò se ne deduce che per gli uomini di quel periodo - Goethe in prima fila – la perfezione musicale raggiunta da Haydn e Mozart, rappresentasse la voce della Natura e dunque del Divino. Beethoven invece, arrivato a Vienna, capì da subito che un'epoca era finita, storicamente e artisticamente e, dunque, bisognò trovare, esplorare, inventare, nuove strade. L'ho già scritto e qui lo ripeto: Beethoven fa parte di quella piccolissima schiera di uomini che hanno avuto la possibilità, di unire al loro genio e al loro carattere, una situazione storica favorevole al cambiamento, al rivoluzionamento dello status quo. Carlos qui ricordava i Trii dell'Opus 1! Ebbene già fin da queste prime opere e, in particolare per 87 battute in pianissimo, del finale del Trio n. 3, Beethoven ricevette i rimbrotti di Haydn che considerò simile scelta, troppo avventata e innovativa: la gente non l'avrebbe compreso. Sostanzialmente questa è la storia di tutta la vita compositiva del genio di Bonn: quante opere che oggi noi consideriamo dei capolavori assoluti, furono malamente criticate a cominciare dall'Eroica? Tante, innumerevoli e, naturalmente e soprattutto i capolavori himalayani degli ultimi dieci anni di vita. E dunque come andò a finire? Barbara, te lo faccio raccontare da Milan Kundera che, non ha scritto solo “L'insostenibile leggerezza dell'essere” diventato famoso per un brutto film, ma innumerevoli e sapienti saggi e, questo in particolare, nel suo finale, mi commuove sempre: « Beethoven, negli ultimi dieci anni della sua vita, non si aspetta più nulla da Vienna, dall'aristocrazia, dai musicisti che lo onorano ma non l'ascoltano più; neppure lui del resto li ascolta, non fosse altro che per il fatto che è sordo; è al vertice della sua arte; le sue sonate e i suoi quartetti sono unici; per complessità di costruzione sono lontani dal classicismo, ma non per questo si avvicinano, alla facile spontaneità dei giovani romantici; nell'evoluzione della musica egli ha preso una direzione che non è stata seguita; priva di discepoli, priva di successori, l'opera della sua libertà vespertina è un miracolo un'isola. »
  18. Come già sai, sono incline a decontestualizzare. E, qui sì, davvero mi ci potrei perdere! Ma non ti pare che contestualizzare e decontestualizzare siano un po’ come un dualismo (concetto che ti è caro) nel rapporto con un’opera d’arte? E che bisogna serenamente accettare che alcuni di noi propendano per l’una o per l’altra pur riconoscendo l’importanza di entrambe? (Luca) Certo Luca, si può propendere per l'una o per l'altra – o per altre maniere ancora se si pensa sia giusto così! - anche, e soprattutto perché l'avvicinamento ad un'opera d'arte è, innanzi tutto, un fatto soggettivo e ognuno di noi sceglie la strada che crede meglio nel farlo. Sul dualismo invece, non credo che contestualizzare e decontestualizzare siano esattamente un dualismo “perfetto” come “l'essere non essere” di Shakespeare o “la necessità e il libero arbitrio” che lo scrittore Roberto Cotroneo attribuisce alla Grande Fuga Opus 133. Io li vedo come azioni conseguenziali a patto che prima si contestualizzi e poi si decontestualizzi: improponibile sarebbe il contrario. Mentre negli altri casi, anche invertendo l'ordine non vedo come si potrebbe raggiungere il suo contrario. La seconda è sulle affermazioni di Bloch riguardo il condizionamento sociale che la musica “subisce”. In particolare trovo curioso (nel senso che trovo interessante) il parallelo Oratori di Händel ascesa imperialistica dell’Inghilterra, e anche tutti gli altri che vi sono riportati. Davvero interessante ma . . . non vado oltre. (Luca) Ricordo che a scuola mi fu dato un tema con cui, attraverso la storia della lana, avrei dovuto allacciarmi ad alcuni fatti salienti di carattere storico: lo scopo era quello di dimostrare come attraverso la lana si potesse scrivere la storia. Se questo è possibile con la lana, pensa quanto lo è attraverso le arti tutte e dunque, anche la storia della musica. Senza andare troppo lontano, possiamo prendere la motivazione che Simone ha dato per la sua preferenza nel portare sull'isola deserta Mozart: « per il suo beffarsi della società per mezzo della sua musica ». Se ci si pensa essa è legata strettamente sia a fattori storici del periodo in cui visse il salisburghese, sia a fattori caratteriali e psicologici, nonché al suo spessore geniale. Haydn, a lui contemporaneo, mai e poi mai avrebbe potuto fare questo. Ma se Mozart fosse vissuto appena qualche anno prima, con lo stesso carattere e la stessa genialità, non avrebbe mai pensato o osato fare questo tipo di scelta. Il vivere nel periodo dell'Illuminismo con alle porte la Rivoluzione francese, gli permise di ribellarsi a Coloredo prima e poi di farsi beffe, attraverso la sua musica dei potenti. Ma pensa anche allo stesso Beethoven che visse nel periodo post-Rivoluzione francese e che fu completamente impregnato di quei valori illuministici. Certo, se non avesse avuto quel carattere e quella assoluta certezza della sua grandezza, non avrebbe potuto alzarsi allo stesso livello dei nobili e gridare al principe Lichnowsky a quel modo ma, se fosse vissuto qualche decennio prima, non avrebbe mai osato farlo. Mio malgrado debbo ancora dare almeno in parte ragione a Buscaroli, quando nella sua brutta e discutibilissima biografia beethoveniana così afferma: « Le apparizioni di un Virgilio, di un Michelangelo, di un Beethoven riescono così prodigiose, che la posterità, quando non sia ancora guasta come oggi, ringrazia la sorte del dono ricevuto, e lo chiama miracolo. Il miracolo ha una spiegazione per chi è abituato a scrutare certi misteri. Rispetto a un Donatello, Michelangelo non è più grande, come si dice nella rozza scala dei valori di cui ci serviamo, Beethoven non è più grande di Sebastian Bach. Ma l'ora di Michelangelo e l'ora di Beethoven battono sui quadranti delle epoche quando i linguaggi e le forme delle arti sono pervenuti al culmine meridiano (...). È un momento breve la “cresta sottile” (...) » Perché in parte? Perché Buscaroli, da buon reazionario qual è, annette importanza solo all'arte nel determinare quella “cresta sottile”, senza dare alcuna importanza ai fatti storici rilevantissimi che accompagnarono e resero possibili il “miracolo” per questi geni. Confesso che per la maturazione dell'idea della contestualizzazione storica in me, ha avuto una grossa importanza la lettura fin dalla più giovane età di un libro della biblioteca di mio padre che ancora conservo con affetto: “Come la musica esprime le idee” dell'americano Sidney Finkelstein, del 1955. Finkelstein fu uno studioso d'arte e, in forte polemica con chi sostenne che la musica fosse un'arte astratta, pura da qualsiasi contaminazione, scrisse questo libro che si propose di riassumere la storia della musica, legandola alla storia, dimostrando quanto in realtà, essa sia ben legata alle sorti dell'umanità e sia impregnata dalle idee che attraverso il corso dei secoli, hanno caratterizzato il pensiero umano. Il libro oggi, sotto vari aspetti è datato, ma ancora molte pagine hanno una freschezza attuale. Ne propongo un passo dell'inizio perché rispecchia il mio pensiero: « La storia della musica è, prima di tutto, la storia della trasfigurazione delle rappresentazioni umane in suoni è la storia della tecnica che, per mezzo della voce, delle dita, del corpo e degli strumenti musicali, riesce a dar vita a queste immagini con una ricchezza sempre crescente. Tale evoluzione è sempre sociale, poiché è prodotta da innumerevoli atti e scoperte, ognuno dei quali si aggiunge al precedente e appartiene al complesso di un popolo.(...) Per comprendere la musica è necessario situarla nel quadro della vita reale in cui è fiorita. » Ma veniamo a Händel in specifico! Händel in Inghilterra abbandonò l'opera italiana per comporre oratori in inglese, desumendo i temi dalla Bibbia protestante, che era servita da arma ideologica per la rivoluzione delle classi medie. Essi contengono musica veramente drammatica permeata da sentimenti tragici e, al tempo stesso da una festosa gioia di vivere, in misura molto maggiore dei melodrammi della sua epoca. L'Inghilterra d'allora, ma anche quella vittoriana ebbe molto a cuore questi oratori che ebbero uno straordinario successo fin dalle loro prime esecuzioni. Oratori come “Israel in Egypt” cantano la gloria del popolo eletto, ma dietro a quello israeliano, in realtà, il popolo eletto fu quello inglese. Il “Messiah”, il più celebre fra gli oratori händelliani, ma non il migliore musicalmente parlando, parla in realtà della divisione in Irlanda, fra la maggioranza cattolica e la minoranza protestante e il suo significato ultimo s'enuclea nell'illustrare i confronti di una religione saggia – quella protestante -ottimistica al di là e al di sopra di ogni questione dogmatica, sommamente caritatevole e comprensiva. Nel “Judas Maccabaeus”, la storia questo grande capo militare ebreo, nasconde in realtà un fatto storico del momento: le forze dell'attuale re d'Inghilterra Giorgio II ottennero una grande vittoria contro gli scozzesi a Culloden. La parte finale dell'oratorio, con quel coro di gioia iniziato piano, non può essere stato non tenuto presente da Beethoven nel comporre il finale della Nona Sinfonia. E qui, come dici tu... « non vado oltre », anzi vado a nanna! Ciao a tutti!
  19. Ciao, mio caro Luca, solo ora riesco purtroppo a riprendere questa tua importante parte del discorso che, meriterebbe ben altro interesse da quella sin qui riscontrata. In realtà di questo argomento tu ed io ne abbiamo parlato in numerose circostanze e dunque, difficilmente ti dirò del mio pensiero, cose che tu non sappia già. Pensiero che è certamente influenzato dalla mia forte passione per la storia tout-court e per le biografie ma, sta di fatto che, oggi come oggi, sono sempre più convinto che la contrapposizione fra contestualizzare e decontestualizzare non abbia più senso ma che entrambe le cose siano necessarie per poter addentrarsi realmente nei meandri complessi dei grandi capolavori d'arte del passato. La parola d'ordine potrebbe essere dunque “contestualizzare per decontestualizzare” e, vediamone il perché dal mio punto di vista. Partiamo da questa parte del tuo scritto: « gli scritti di Roman Rolland meritano lo stesso rispetto della analisi di Hanslick: non per benevolenza ma per pari serietà. » che è sacrosanta: tutti i ragionamenti vanno rispettati se però vengono riportati nel loro alveolo storico-culturale. Rolland, ancorato a schemi tardo-romantici, legò, per riassumerla molto brevemente, la funzione della musica a quella di un linguaggio universale capace di accomunare tutti gli uomini. Oggi, penso che nessuno oserebbe definire la musica un linguaggio nel senso più ortodosso del termine ma, resta pur certo il fatto che siamo noi che ad essa, possiamo di volta in volta, a seconda di come la usiamo, attribuirgli anche la funzione di un linguaggio che, proprio perché comprensibile ad ogni latitudine e longitudine terrestre da chiunque, svolga, o aiuti a svolgere, la funzione di accomunare tutti gli uomini: vedi a tal proposito il discorso di Bernstein da me riportato da altra parte nel forum. Hanslik fu invece ante-litteram, un anti-romantico che, in antitesi a Wagner che spinse la sua musica fino al simbolismo descrittivo dei suoi temi e, in perfetto accordo con Brahms, di cui fu sempre grande amico, sostenne che la musica non è in grado di esprimere sentimenti ma solo valori intrinseci di costruzione musicale e dunque, come ogni arte, va ricondotta alla sua tecnica. Su questo aspetto, ancora una volta, penso che le cose più giuste siano state scritte dal nostro Massimo Mila in “L'esperienza musicale e l'estetica” che tu conosci molto bene e che potrebbe riassumersi in questa piccola estrapolazione: « In realtà non sono poi queste nostre identificazioni e attribuzioni determinate dall'uso storico che ne hanno fatto i grandi nei loro capolavori? Da sola una quinta non significa un bel niente a che vedere con orizzonti campestri, calme profonde e serenità sconfinate e (...) dacché Beethoven ha fatto uso della quinta in questo modo nel contesto della Pastorale, noi siamo indotti ad associare irresistibilmente a tale accordo questo complesso di sensazioni. » Vi è però un'altra alternativa al pensiero di Hanslick su cui vorrei richiamare la tua attenzione e questa è data dal filosofo Ernst Bloch – da non confondere con il compositore, quasi omonimo, Ernest Bloch – che fondò le basi della sua filosofia dell'utopia e della speranza sulla musica, in quanto, secondo lui, forma di pensiero vero e proprio. Due dei presupposti di questi suoi testi sono da ricercarsi nell'illustrazione del grande mito di Pan e, dunque nelle “Metamorfosi” di Ovidio e nel “Fidelio” beethoveniano, un'opera scandita costantemente dalla luce della speranza: pensa solamente al momento dello squillo di trombe che annunziano in lontananza l'arrivo del Governatore salvando Florestan da Pizarro che lo vuole uccidere. Bloch polemizzò con forza proprio con Hanslick: « Le grandi individualità sono incomparabili e sono veramente nate per qualcosa di diverso dalla tecnica. Basti pensare alle false chiacchiere di Hanslick, che contrappone a Gluck Mozart, a Mozart Rossini, a Rossini Meyerbeer. Comprenderemo allora come, in questo gioco in cui si contrappone un musicista all'altro sul puro piano tecnico, tutto si riduca ad una formula meschina, superficiale ed irriverente, soprattutto come in questo caso, il critico si ferma improvvisamente proprio nel punto in cui il procedimento è più moderno, viola la norma del progresso banale, e della storia si serve unicamente per questo gioco, rimanendo solo nella sua meschinità.» E se le critiche Bloch non le risparmiò neanche ai rivali di Hanslich, i “wagneriani estremisti”, egli mise al centro della sua analisi filosofica e musicale l'importanza della storia: « Nessuna arte è tanto condizionata socialmente quanto la musica, di cui si presume che sia automaticamente, addirittura meccanicamente auto-fondata; essa brulica di materialismo storico, e proprio storico. (...) Niente Haydn e Mozart, Händel e Bach, Beethoven e Brahms senza il loro compito sociale di volta in volta precisamente variato (...). Gli oratori di Händel nel loro solenne orgoglio rispecchiano l'ascesa imperialistica dell'Inghilterra, l'attitudine ad essere popolo eletto. Niente Brahms senza la società dei concerti borghese e perfino niente musica della pretesa inespressività, senza il gigantesco aumento dell'alienazione, dell'oggettualizzazione, della reificazione nel tardo capitalismo. È lo strato dei consumatori e il loro compito, è il mondo dei sentimenti e delle mete della classe di volta in volta dominante, che si esprime nella musica. E la musica, in forza della sua capacità di espressione così immediatamente umana, ha al tempo stesso più di altre arti la proprietà di accogliere il cospicuo dolore, i desideri e i punti luminosi della classe oppressa. E nessuna arte ha a sua volta tanta sovrabbondanza rispetto al tempo e all'ideologia di cui di volta in volta si ritrova; una sovrabbondanza, certo, che abbandona meno che mai il livello umano. È la sovrabbondanza del materiale della speranza, anche nella sonora sofferenza per il tempo, la società, il mondo, perfino la morte (...) » Ritorniamo dunque, caro Luca, all'importanza del “contestualizzare per decontestualizzare” che nell'ambito dell'arte musica diventa ancora più pressante se siamo d'accordo con quanto affermò Bloch: contestualizzare per comprende fino in fondo le ragioni storiche, culturali, artistiche e psicologiche che portarono quel gran compositore a fare determinate scelte piuttosto che altre e, solo dopo averlo fatto, decontestualizzarlo per proiettarlo nel nostro tempo e capire quanto possa essere ancora attuale quel suo messaggio e, a noi, umanità del XXIesimo secolo, cosa possa ancora dare e cosa rende quella musica immortale. Ma qualcuno, a questo punto, potrebbe chiedere: che c'entra tutto ciò con il “primato della musica” di cui si dovrebbe scrivere in questo topic? C'entra! Eccome se c'entra! Non solo o non tanto perché Bloch insistette proprio soprattutto su nomi quali Bach, Mozart, Beethoven, Wagner, ma c'entra per affermare da parte mia “il primato della musica” su tutte le altri arti.
  20. Ok Simone, la tua risposta era data nelle probabilità. fra le tante che avresti potuto scrivere. Da parte mia aggiungo solo una piccola considerazione: nel mio precedente scritto si parla già anche di musica ...e che musica. Dispiace ancora una volta che in questo forum non se ne sappia - o non se ne voglia - farsene carico! E dunque...ancora una volta peccato! Ah, per quanto riguarda la poesia di Quasimodo e, giusto per continuare il gioco infantile, era una risposta a chi mi aveva offeso e per ricordargli che non vale poi molto la pena litigare per così poco e che alla fine dei conti...la vita è breve e l'arte è lunga.
  21. Se ti rispondo finiamo per litigare. Considero il tuo "cappello introduttivo" assolutamente delirante. (Claudio) Conosco abbastanza bene la penna di Claudio e sto cominciando a conoscere solo adesso la tua; mi sembrate entrambi persone in gamba e di una certa levatura, sono sicuro che in futuro possiate rispettarvi l'un l'altro nei vostri scambi di opinioni (ormai ho imparato a conoscere Claudio: è una bravissima persona che a volte può sembrare più focoso di ciò che è in realtà, ma capisci bene che se ti avesse chiamato "Danielino" probabilmente anche tu ti saresti stranito).(...) Armonia !! Ricordiamoci che si parla di musica! (Simone) Caro Daniele, tu sei riuscito a farmi scrivere qualche risposta meno serena, dal momento che anche con me hai avuto un approccio troppo protervo. Eppure, nulla puo' averti disturbato personalmente, e se qualcosa di ha offeso intellettualmente, ebbene, siamo qui per discuterne. Irritare una persona come me, credi, non è un problema. Irritare Claudio è un' impresa titanica. Se lo hai fatto senza intenzione, è mio dovere di amico chiederti per favore di essere meno arrogante. (Armando) Cari Simone e Armando, quello che mi lascia un leggero amaro in bocca è constatare la vostra parzialità nel giudicare. Parliamo spesso di amicizia e, vorrei dunque ricordarvi un vecchio proverbio che recita così « Patti chiari amicizia lunga » e, dunque, considerando essenziale la franchezza e la sincerità in un rapporto di amicizia corretto sarò tale con voi. La musica è fatta di Armonia che può essere anche dissonante è di atonalità. Vorrei dunque ricordarvi che ad iniziare a “offendere” - notare le virgolette” è stato Claudio quando mi ha risposto che prima non mi rispondeva per non litigare – litigio che avrebbe fatto da solo per altro – ma poi ha aggiunto che il mio scritto era un delirio. Ora, dando sempre a Cesare quel che è di Cesare, a casa mia delirare equivale più o meno a dire pazzie, ad essere fuori dal seminato – che di per sé non sempre è un male – poi, infine ha usato il termine “vecchio” nei miei confronti. Risultato, mettendo assieme le due cose: sono un “vecchio delirante”. Da parte mia mi sono limitato a rispondere a tono definendolo un “giovincello che spara anche sciocchezze enormi” - notare “anche” per favore -. Tutto sommato mi sembra sia andato meglio lui, o no? Quanto alla penna di Claudio, la conosco dal 2009 e so bene quanta “focosità” abbia ma anche quanta preparazione culturale e intelligenza ci sia dietro, cosa che per altro gli ho detto diverse volte. Il problema di Claudio è che l'insieme di tutte queste caratteristiche unita alla legittimazione del titolo di musicologo e da una forte ego personale, lo portano ad avere atteggiamenti da “verità in tasca” con la conseguenza di dire appunto anche delle sciocchezze, o boutades se pensate sia più corretto. Affermare, come ha fatto Claudio, in diversi momenti di questo forum che Bach è vecchio o poco rilevante da un punto di vista storico è dire boutades sullo stile di « Bach non è superiore a Telemann, ma soltanto diverso », frase che andò in onda negli anni 60 del secolo scorso. Come direbbe Piero Buscaroli ,critico musicale da cui mi dividono pochi chilometri in termini di spazio e anni luce in termini di pensiero ma che ogni tanto, ne dice una condivisibile: il Bach di cui parliamo è il genio della musica Johann Sebastian Bach e non uno dei tanti “soliti” Bach! La vostra parzialità in parte non mi stupisce: come in tutte le comunità che si rispettono, si fa cerchio verso i propri addetti essendo Claudio un moderatore. Non mi stupisce ma non la giustifico perché è comunque un errore da parte vostra. Quello che poi mi stupisce di più per non dire che mi lascia esterrefatto è l'amico Armando che è capace, dallo studio degli scontrini delle birrerie di ricostruire gli spostamenti a Vienna di Beethoven nel pomeriggio del 22.04.1817 ma a cui sfugge l'esatta successione cronologica di certi messaggi di Claudio e, di conseguenza, dei miei. Ma quello che alla fin fine mi lascia più amaro in bocca è questa tua velata – ma non troppo – minaccia Armando: « Se lo hai fatto intenzionalmente, cosa che non credo, è mio dovere di amico dirti che non sei proprio nel luogo giusto, a mio modesto parere, per esprimere le tue idee in questo modo. » Certo che l'ho fatto intenzionalmente Armando e per i motivi che ho già spiegato ma la minaccia la rimando al mittente. Ti invito a leggere il regolamento dettato da Simone per questo forum e se, hai buona memoria ti renderai conto di come tu, palesemente, non lo abbia rispettato, rispondendomi non qui, ma da altra parte, in una regola senza che nessuno ti abbia richiamato per questo. Sia ben chiaro Armando, a me personalmente, non frega nulla e la cosa non mi ha minimamente scalfito, ritengo comunque sia opportuno stare attenti a lanciare anatemi guardando la pagliuzza negli occhi degli altri senza accorgersi della propria trave. In quanto al mio atteggiamento protervo nei tuoi confronti, francamente a me non è sembrato tale e, se avrai la voglia di segnalarmi dove io lo sia stato te ne sarò grato e non avrò alcuna esitazione a chiederti scusa. Da parte mia e dal mio punto di vista mi sono limitato a essere critico su certi tuoi scritti – cosa per altro ovvia nel momento che si decide di dare in pasto questi ad un forum – in maniera educata e corretta ma, ripeto, se tale non sono stato ti chiedo il favore di dirmi dove e perché. Caro Daniele, la mia uscita conteneva già in parte delle motivazioni che da me ricercavi (che tra le altre cose, non volendo o forse volendo hai dato tu nel tuo successivo post). Per semplificare non voglio parlare dell'ambito musicale ma mi preme fare un parallelo in ambito calcistico nel quale vogliamo paragonare i grandi del calcio (settore sportivo nel quale io non ho alcuna competenza ma che ho scelto solo per convenienza statistica). «E' più forte Pelé o Maradona?». Cercare di stilare la classifica dei grandi è sempre cosa difficile ma soprattutto soggettiva ed esperienze passate all'interno del forum mi hanno fatto osservare che parlare di alcuni argomenti può essere interessante a livello culturale ma perfettamente inutile in quanto a finalità discorsive; insomma un'esperienza che ci arricchisce ma che non porta da nessuna parte. Dovendo scegliere tre compositori da portare sull'isola, potrei dire Bach perché è stato il primo a mettere "l'architettura nella musica", Mozart per il suo beffarsi della società per mezzo della sua musica e Chopin perché percuote una corda romantica dentro di me. Tu potresti dirmi: "e Beethoven dove lo mettiamo ?" Oppure Brahms come hai giustamente ricordato... Non so se col passare degli anni modificherò la mia lista, probabilmente sì, so solo che adesso io vivo questa realtà e nessuno potrà mai darmi motivazioni sufficienti affinché io cambi la mia idea, e questo semplicemente perché ha a che fare con qualcosa di più profondo delle solite comparazioni di natura oggettiva su cosa abbia fatto l'uno che non ha fatto l'altro; ha a che fare con il campo delle emozioni. Le emozioni può modificarle solo il tempo e probabilmente un domani la vedrò come te o forse no, non posso dirlo. Non prenderla dunque come un'offesa se non ho voluto proseguire il discorso con te, il fatto è che mi ripeterei per la centesima volta. Noto però che ogni volta che si riaprono questi discorsi da "scaletta del migliore" escono sempre nuovi punti di vista, ecco il motivo per il quale ho preferito ascoltare in silenzio ciò che avevate da dire (si impara sempre qualcosa di nuovo). (Simone) Gentile e caro Simone leggendoti devo constatare che sicuramente non sono stato chiaro sia qui che nell'altro topic e, dunque, spero di riuscirci ora, fermo restando che tu potrai, naturalmente, continuare ad essere in totale o parziale disaccordo con me, anche perché, credimi, l'ultima delle mie intenzioni e possibilità è quella di convincere qualcuno di qualcosa. Ho il massimo rispetto delle altrui opinioni per arroccarmi il diritto – dovere e la capacità di poter convincere qualcuno, il mio farneticare va inquadrato solo ed esclusivamente nell'ambito di una discussione in cui esprimo i miei punti di vista e basta. Parlare de “Il primato della musica” non vuol dire assolutamente stillare classifiche o cose simili. Il fare classifiche ha senso e una sua logica, solo nell'ambito di discorsi che riguardano i nostri gusti personali, come è appunto, cosa porteremmo nell'isola deserta o cose simili. “Il primato della musica” è una discussione e uno studio che ha avuto origine dopo Beethoven e che tutt'oggi si protrae a giusta ragione o a torto. I musicisti, il nascente fenomeno della musicologia e più, in generale tutti gli ascoltatori di musica classica, ebbero l'esigenza di dare una risposta su chi fosse stato il più geniale, il più gigantesco fra i compositori. Per dimostrarti che non è un mio “delirio” ti riporterò alcuni estratti di due musicologi, dove se ne parla chiaramente e si usa il termine “primato”. Il primo è tratto da “Breve storia della musica” Einaudi editore (1963), di Massimo Mila: « Soltanto ai giorni nostri l'attenzione della critica comincia a rivolgersi ai valori strettamente musicali dell'arte beethoveniana e a cercar di comprenderne pienamente il meccanismo linguistico, nelle sue relazioni lessicali con la produzione contemporanea e nella sua forza di propulsione verso l'avvenire. E comincia a farsi strada la convinzione che anche se – per avanzare un'ipotesi estrema – si volesse considerare Beethoven sotto l'angolo visuale della così detta musica pura, forse il suo primato rimarrebbe incrollabile.» Giovanni Carli Ballola, a cui dobbiamo una biografia beethoveniana risalente nella sua prima stesura al 1968 che conclude così il suo libro: « Oggi il primato di Beethoven così come era inteso durante il XIXesimo secolo è definitivamente tramontato attraverso una specie di “rivoluzione copernicana” che ha collocato il Maestro di Bonn in un firmamento di astri del pari, se non più fulgidi: Bach, Mozart. Schubert, Wagner e forse qualcun altro.(...) » Ballola fa sicuramente una grossa dimenticanza nel non nominare Brahms fra quei grandi ma, una grossa dimenticanza, l'ho avuta anch'io nel non nominare fra i massimi compositori dell'Ottocento Franz Schubert. Vedrò dunque per rimediare a questa mancanza di proporti uno scritto di Piero Rattalino che tu conoscerai bene, essendo egli, oltre un critico musicale, un celebre didatta del pianoforte. Correva l'anno 1997 che coincise con il bicentenario della nascita di Schubert, Donizetti e il centenario della morte di Brahms. In quell'occasione Rattalino nella sua collana “Symphonia” propose uno scritto dedicato a Schubert che iniziava riassumendo in poche righe quella che era stata la storia del “primato”. « (...) Tutti sanno che l'Ottocento non equiparò Schubert e Beethoven, e neppure Mozart e Beethoven. La classicità viennese aveva un gigante Beethoven, e due precursori, Haydn e Mozart, che avevano preparato le vie del Signore. Schubert era un romantico, molto caro a Schumann, e poi a Brahms, che aveva scritto cose bellissime, e che non era un nano, ma che veniva valutato soprattutto come melodista e come maestro delle piccole forme. (...) Il Novecento che sta per spirare ha ridisegnato il quadro storico, e fin dalla giovinezza, dai suoi anni venti, ha cominciato a dire che no, che Mozart non è soltanto un precursore di Beethoven, e poi ha detto che in fondo Mozart è meglio di Beethoven (e che Bach è meglio di entrambi) e poi ha detto che in fondo Beethoven non è poi così male e che nemmeno Bach è l'Unico, ma che Bach, Mozart e Beethoven sono tutti e tre dei giganti spiriti magni dell'umanità. E Schubert? Schubert è stato traslocato dal romanticismo alla classicità viennese e della classicità viennese è diventato il quarto uomo (o il quarto apostolo). E questo per il Novecento è un risultato certo. (...) » E infatti nel 2009 il filosofo Eugenio Trias accosta il nome di Schubert alla « Santissima trinità » viennese, composta da Haydn il Padre, Mozart il Figlio, Beethoven l'Uomo: « Ma non c'è tre senza quattro, nel senso che non c'è trinità che non postuli sempre la presenza di un quarto: colui che rivela, accanto l'apoteosi dell'Eroe, lo smarrimento e la disfatta, o il suo viaggio senza remissione in pieno inverno. Sono quattro voci uniche, singolari ugualmente rilevanti nel loro stile e nel loro linguaggio. » Caro Simone, nel proporre questo tema in questo forum mi sarei aspettato ben altro che la risposta di Claudio. Mi sarei aspettato una critica sì, ma di questo genere: Daniele, parlare di primato oggi è ormai obsoleto se non per altro, almeno certamente, alla luce delle conoscenze che abbiamo della musica pre-bachiana e della storicizzazione del Novecento. Questo, mi sarei aspettato! Al che avrei risposto: sono d'accordo e questo se avete ben letto è già nelle premesse, implicitamente, del mio cappello. Ma ciò detto, comunque sia, ci sono poche certezze nella vita e una di queste è che ci sono tre giganti musicali che per le loro caratteristiche, per le loro peculiarità, raggiunsero vette irraggiungibili e nello stesso tempo riuscirono a proporre un percorso artistico assolutamente unico nell'ambito della storia della musica. Cosa rende così assolutamente gigantesco e unico Bach e che non si trova in nessuna altro compositore prima e dopo di lui? Bach è l'assoluto architetto della musica, opere come le sue Passioni e la sua Messa in si-, come tutta la sua opera di tipo speculativo, uniscono estrema bellezza ad altezze architettoniche altrettanto estreme ma, quello che lo rende veramente assolutamente unico nella sua genialità, è come egli abbia saputo – e questo ovviamente possiamo dirlo col senno di poi – unire il suo passato al suo presente e al suo futuro. Impresa titanica questa Simone! Bach in pieno Settecento e in pieno stile galante – vale a dire uno dei momenti più bassi della storia della musica – prediligendo la musica antica, quella lontana nel tempo che rimaneva un modello superiore di perfezione formale, quella che nel 400 era stata fiamminga e nel 500 europea, quella della grande scuola del contrappunto, la riportò al suo presente, aggiornandola e costruendovi sopra monumenti assoluti e, facendo tutto ciò, fu capace anche di avvertire il futuro. Dagli anni 70, del secolo scorso gruppi di musica Pop - sopra tutti i Jethro Tull con la loro magnifica “Bourrée” che affonda le radici nella Suite per liuto BWV 996 – e di musica Jazz hanno preso ispirazione da brani di questo immenso genio. E questo alla faccia della sua musica che è vecchia! Mozart fu l'artefice davvero della musica più bella, limpida, elegante, armoniosa che si possa immaginare e dal temibile confronto con Bach e Beethoven ne esce per queste sue peculiarità a testa altissima, a pari grado pur nelle diversità. Se Beethoven fu il Michelangelo della musica, Mozart fu il Raffaello per aver saputo tenere la sua Arte nei limiti della natura, della verità, della verosimiglianza, della misura classica, della proporzione esatta. Infine Beethoven, caro Simone. Invano cercherai, nei secoli dei secoli, un compositore che in soli 36 anni, come lui, partendo da uno stile tardo classico, by-passò tutto il secolo a venire – e dunque quello Romantico - e che, nella sua terza fase, compose opere di altezza architettonica pari a quelle di Bach proiettandole direttamente nel secolo succesivo. Questo percorso fu ben riassunto e spiegato da Massimo Mila: « Prendiamo tre quartetti: il Quartetto delle dissonanze di Mozart K 465 in do+, il Quartetto in re+ Opus 18 n.3 di Beethoven e il Quartetto in do#- Opus 131. Diciamo la verità: quali sono i più simili per affinità per stile? I due di Beethoven o piuttosto il quartetto di Mozart e quello della giovinezza di Beethoven? Continuiamo a fare supposizioni: bomba atomica, distruzione delle biblioteche, e poi si comincia a ritrovare, qua e là, opere isolate, su cui ci si sforza di ricostruire la storia della musica. Si ritrova per caso e senza data il suddetto Quartetto Opus 131 e, datati, il primo Quartetto di Bartók Opus 7 (1907) e il primo Quartetto di Hindemith Opus 10 (1918). Che rimprovero si potrebbe fare al nostro collega del 3970 se, non avendo alcun’altra conoscenza della vita e delle opere di Beethoven, collocherà questo compositore all’inizio del Novecento, vista la straordinaria affinità di scrittura contrappuntistica che caratterizza il suo Quartetto e quelli di Bartók e di Hindemith? E quale sarà il suo stupore, in quale puzzle andrà a dibattersi quando altre scoperte gli restituiranno per esempio quel Quartetto Opus 18 n.3 in re+ di quel medesimo Beethoven, di cui lui non sa niente e il Quartetto delle dissonanze di Mozart, di cui supponiamo che, per un caso fortunato egli conosca la data! Non sarà tentato di attribuire a Beethoven un’esistenza di 120/130 anni, diciamo come se fosse nato nel 1770 e morto verso il 1900? Oppure di supporre l’esistenza di due compositori di questo nome? » Lo stesso Mila nel definire la Grande Fuga Opus 133 così si espresse: « È il più difficile pezzo contrappuntistico mai visto, di un'ampiezza di concezione e di una tale libertà di armonie dissonanti da mettere ancora oggi in seria difficoltà. Straordinaria avventura intellettuale di un artista giunta a tanta altezza da poter contemplare, come un dio, passato e futuro. » Dimmi Simone, quale altro compositore nella storia della musica può vantare un simile percorso artistico, un simile genio? Wilhelm Furtwängler disse di Beethoven: « Non solo tempeste e burrasche ma il creatore della più profonda e benefica pace e che risulta per questo oltremodo nuovo. È davvero completo. Non è prevalentemente cantabile, come Mozart, non è prevalentemente architettonico come Bach, non drammatico-sensuale come Wagner. Egli è – e in ciò risiede la sua originalità – tutto questo insieme, e ogni elemento ha il suo posto particolare. » Ciao Simone e scusami per tutto! Con affetto per tutti voi! Daniele
  22. Cari Armando e Simone, per motivi dovuti al solito tempo tiranno, non riesco a rispordervi tempestivamente. Mi riprometto di farlo entro la settimana. Nel frattempo vi mando un caro saluto.
  23. Ok, Claudio! Ppermettimi però di darti tre suggerimenti che, ovviamente a te non fregheranno nulla : il primo è di non imbufalirti perché, in realtà non serve a nulla, ti risparmi due fatiche: di imbufalirti prima e sbufalirti dopo, il secondo riguarda il Galateo – o chi per lui -: è preferibile dire ad una persona più attempata che è più anziana e non più vecchia, non che io mi formalizzi molto sia ben chiaro, ma trovo che nella tua qualità di moderatore, sarebbe più educato e avresti solo da guadagnarci. La terza invece la estendo a chiunque mi legga: aldilà delle classifiche che in realtà anche a me non interessano poi molto e che differiscono da un discorso sul primato, tutte le arti, la letteratura, le poesia ma anche le scienze hanno i loro grandissimi. Non vedo cosa ci sia di male nell’individuarlo anche all’interno del corso della storia della musica. Michelangelo, Raffaello, Leonardo, Dante … tutti nomi che nessuno si permetterebbe di mettere in discussione o, ancor peggio, definirli insignificanti storicamente o vecchi. Nella musica, a quanto pare, visto che qui comunque nessuno prende posizione in un senso o in altro –forse perché hanno paura del moderatore? – ci si può permettere di rimettere tutto in discussione e di dire di Bach sciocchezze enormi. E va bene, hai ragione Claudino, sono vecchio e obsoleto, ma non so rassegnarmi che le cose nella musica vengano cosi conformizzate. Il tuo – o il vostro – pensiero porterà a a far sì che tutto sia uguale, che tutto valga alla stessa maniera, che la musica d’arte sia solo una balla inventata da musicologi, filosofi, intellettuali vecchi e che non sapevano cosa scrivere e si dilettavano a perdere tempo su cavolate, giusto per incantare la gente. Così va il mondo e io mi devo rassegnare e deporre le armi perché come sempre ho perso! Peccato … veramente peccato! Io non considero i miei convincimenti “inevitabili” anche perché, a differenza di tanti altri – e forse tu sei uno di quelli – non ho certezze in tasca ma solo tanti dubbi. Penso però che nella vita almeno una qualche certezza reale sarebbe meglio averla e i grandissimi del passato sono una di queste. Ciao Claudio, salutami la tua micia e falle una carezza per me.
  24. Per rispondere a tutti voi lo farò in questo topic perché penso sia quello che meglio degli altri possa riassumere tutti gli argomenti trattati. Se ti rispondo finiamo per litigare. Considero il tuo "cappello introduttivo" assolutamente delirante. (Claudio) Assoluto delirio (Parte seconda) Caro Claudio posso assicurarti una cosa che ho altri problemi e l'ultimo, sicuramente sarebbe quello di stare a litigare con te o con qualsiasi altro. Ciò detto, nonostante tutto mi permetterò ancora una volta, di delirare, poi se vorrete la faccio finita, giusto perché non mi piace lasciare una discussione senza comunque aver chiarito il mio pensiero o delirio che dir si voglia. Non so se del mio cappello tu consideri delirante le mie esternazioni personali – suppongo di sì! – o anche quanto da me riportato delle frasi dei vari musicologi – suppongo e spero di no, perché ancora una volta se così fosse devo ripetere: se i musicologi di oggi e di domani sono come te, siamo fritti! – perché, aldilà della condivisione o meno di quel loro pensiero, esso è la dimostrazione tangibile che il discorso del primato della musica – quanto meno quello! – non è un mio delirio, ma un problema reale che si è protratto da dopo Beethoven fino ai giorni nostri, come lo dimostra l'affermazione di Trias – maggior filosofo vivente spagnolo, e dunque non di cultura tedesca – quando scrive che « Johann Sebastian Bach è sicuramente il compositore più grande di tutti i tempi ». Non si può dunque disconoscere questa questione che ha impegnato il fior fiore dei musicologi internazionali da ormai quasi due secoli e che continua a tenere banco arricchendosi – questo sì! - di nuove sfaccettature e nuovi punti di vista con la conoscenza sempre più ampia della musica pre-bachiana e inquadrando e storicizzando anche il XXesimo secolo. Questo fermo restando che di Bach, Mozart e Beethoven, e della loro importanza storica e artistica non si può e non si potrà mai prescindere, ti piaccia o no, metti pure il cuore in pace. Sul resto, sulla questione dei musicisti non tedeschi, mi trovo davvero in imbarazzo... abbiamo parlato altre volte in questo forum di quanto l'importanza STORICA di J.S. Bach sia molto relativa. E non è una cosa su cui si può nicchiare facilmente... (Claudio) Non so cosa abbiate detto in precedenza, ma tu, mio caro figliolo, con Bach ancora una volta mi fai rabbrividire per l'orrore del tuo pensare che spero, con gli anni e con la serenità di una bella vita senile – è un auguro che ti faccio naturalmente! - tu possa ampiamente rivedere. Alberto Basso, fra i principali studiosi, biografi, di Bach disse che il compositore di Eisenach rappresenta «una figura storica così centrale e determinante per le vicende della musica » e Giulio Confalonieri aggiunse: « Fuori dal grigiore de' suoi giorni mortali, Bach, s'innalza e domina la storia dello spirito, eroe solare, servo di Dio e maestro degli uomini. ». Questo può bastare a risponderti... poi fai come vuoi tu, pensala come vuoi! altro discorso, poi, è la scelta che il tempo ha fatto tra le composizioni di Bach, come tra quelle di Mozart e di Beethoven. Ancora una volta, tocca ripetere come ampia parte delle composizioni di Beethoven fossero simpaticamente ignorate fino al '900, e tutt'ora poco apprezzate. Stessa cosa per Mozart, stessa cosa per Bach. (Claudio) A parte il discorso Bach che tutti sappiamo come andò, Mozart fu ampiamente conosciuto e amato dai suoi successori a cominciare dallo stesso Beethoven. Di Beethoven furono ignorati i suoi ultimi capolavori – a parte la Nona naturalmente – perché di assoluta incomprensione per molti di quelli che gli successero, ma di questo, se mi hai letto, io ne ho già ampiamente parlato. Il Beethoven eroico era conosciuto e se Beethoven impose il suo primato sulla scena musicale per tutto l'Ottocento e in parte del Novecento fu soprattutto per questo. Se ancora oggi il terzo stile viene ignorato – o non apprezzato per quello che veramente vale – è perché anche fra molti degli addetti ai lavori vige un'ignoranza molto stucchevole. Detto questo, il peso storico, artistico, teorico di Monteverdi è ampiamente paragonabile a quello di Mozart, di Bach e di Beethoven. Senza dubbio. Simile peso potrebbero avere Palestrina, Josquin Desprez, Gesualdo, e, senza rancore alcuno, il solo fatto che tu non li conosci o non li "pratichi" o non li apprezzi non vuol dire che non abbiano importanza storica e artistica. (Claudio) Ancora una volta spariamo nomi come giocassimo un terno all'otto. E va bene! Ma tu, Claudio, dimmi: che ne sai della musica che io pratico? Per tua norma e conoscenza io frequento tutta la musica dai Canti gregoriani a Nono, Berio, Boulez, Vacchi, Clementi, Guarnieri...e penso di saper riconoscere un grandissimo, da un grande e da un mediocre. Palestrina è stato un grandissimo, Desprès anche, su Gesualdo fu un grande e ... andiamo già sui gusti personali secondo me. In tal senso, la tua battaglia contro Wagner è inspiegabile. Se volete apriamo un altro topic in cui ne parliamo, ma qui mi limito a dare una "sententia", alla latina: Wagner è il più importante compositore dell'800. E' assolutamente possibile fare un confronto "di valore" tra lui e Beethoven, per quanto io non ami questo tipo di confronti. Ma davvero io non capisco come alcune passioni possano far calare una coltre così spessa di prosciutto sopra ai vostri occhi, e alle vostre orecchie. Praticamente TUTTI i poeti di fine ottocento e gran parte dei romanzieri hanno parlato di Wagner; moltissimi pittori ne hanno fatto ritratti o hanno usato temi iconografici legati alle sue opere; moltissimi filosofi hanno usato i personaggi delle sue opere per illustrare criteri etici, ontologici e quant'altro; praticamente TUTTI i compositori a lui successivi (e molti contemporanei) lo hanno copiato; la più grande rivoluzione TEORICA della musica del '900 mette in realtà le radici nelle sue composizioni; è citato ampiamente nelle storie dell'architettura, della scenografia, del teatro, della regia; ha praticamente inventato il genere fantasy, che oggi è un genere cinematografico e letterario di tutto rispetto. Cioè, ma cosa volete di più?! Noi tutti studiamo Bach Mozart e Beethoven, più di altri, perché la storiografia musicale tedesca ottocentesca ha affermato che loro tre sono i più grandi di sempre. (Claudio) Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Io Wagner lo infilerei dentro lo stesso, pace all'anima di Verdi. Per diversi motivi citati da qualcuno, Verdi non regge...minimamente. (Kappa) Si, Wagner ha i requisiti per essere un gigante (FranK) Appunto cari miei: « Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire » anzi, nel nostro caso non c'è peggior lettore di chi non vuol leggere. Già a Kappa ho chiaramente detto che Wagner non può che essere annoverato fra i grandissimi e penso che l'ho detto anche a te Claudio e dunque: di quale battaglia si va cianciando qui? Io adoro Wagner, però vorrei ricordarti per dare a Cesare quel che di Cesare – come dice Simone – che la scenografia e la regia, nel teatro wagneriano, quella rivoluzione copernicana, fu dovuta in special modo ad un “certo” Adolphe Appia e non allo stesso Wagner. Questo non toglie nulla alla sua grandezza, sia ben chiaro, era solo per precisarlo. Ciò detto,ricordandovi che comunque sia, Wagner fu tedesco – e proprio dai piedi ai capelli direi – e dunque potrebbe far parte anche lui di quell'imposizione tedesca di cui sopra – ma non lo è – io mi limito a rivendicare un pari trattamento per Verdi – tutto qui! – compositore che in un percorso diametralmente opposto ma contemporaneo a Wagner, partendo dall'eredità rossiniana-donizettiana-belliniana – portò il melodramma a vette himalayane e geniali quali sono Otello e Falstaf, per non dimenticare quel capolavoro assoluto che è la sua Messa da Requiem in morte di Alessandro Manzoni. Tu Claudio affermi arbitrariamente che Wagner è stato « il più importante compositore dell'800. ». Penso invece che al netto di Beethoven nell'Ottocento, secolo pieno – piacciano o non piacciano – di grandi compositori, siano tre i grandissimi: Wagner, Verdi e Brahms – ordine cronologico – e che tutti e tre possano ben figurare nell'olimpo. E a questo punto ciò che mi stupisce – o forse, a ben pensarci, non mi stupisce affatto – è la vostra assoluta mancanza nel citare Johannes Brahms, la terza grande B tedesca, dopo Bach e Beethoven. Non penso che sia una dimenticanza ma sia cosa ben voluta e questo perché? Anche uno come Massimo Mila d'altra parte partì da posizioni non certamente favorevoli verso questo genio musicale – perché tale fu – per poi, in un secondo momento, confessare candidamente i propri errori in merito: « Il saggio su Brahms, per il centenario della nascita, è il disastroso punto di partenza d'un lungo viaggio di avvicinamento, che attraverso tappe successive mi avrebbe portato da uno stato d'insofferente sordità, complici i pregiudizi antiromantici della “modernità”, a una condizione di affetto quasi idolatrico (...) Brahms è il primo e probabilmente il più grande maestro del decadentismo, cioè della civiltà moderna. Decadentismo che nella musica (...) significa appunto ingresso della cultura come componente della creazione artistica, necessità improrogabile di fare i conti con un passato accumulato da secoli, obbligo di assumere coscientemente le proprie responsabilità storiche (...) Brahms come l'ultimo Verdi e poi Reger, Debussy e Busoni (...) iniziarono, come dice Schönberg di Brahms, « a scrivere musica per adulti ». (...) Dispostissimi, essi, a mettere il piede nelle orme del passato e ad annettere la cultura storica tra le forze creative dell'arte; e ciò fecero con un potere di assimilazione che mancò ai loro continuatori neoclassici. (...) Brahms prende il basso di una Cantata di Bach per la passacaglia della Quarta Sinfonia, e uno manco se ne accorge, perché la potenza della sua fantasia musicale, nutrita di cultura, assicura la completa omogeneità: allora la citazione bachiana, analogamente a quanto avverrà nel Concerto per violino di Berg, si comporrà come quei pezzetti d'epidermide che si prelevano da una parte sana per collocarli all'interno di una grande bruciatura, dove a poco a poco germogliano ripristinando l'intero tessuto distrutto. Nell'animo di chi ha scritto la Quarta Sinfonia e il Quartetto con clarinetto sono passte le forze che hanno sconvolto il mondo negli ultimi cent'anni e le esperienze di vita su cui sorgono, Proust e Kafka, Freud e Joyce, Musil e Thomas Mann. Solo che Brahms è il più grande di tutti, e la storia della cultura non riuscirà mai a farsi un quadro completo ed esauriente del decadentismo europeo, finché trascurerà di annettersi i valori musicali. D'altra parte la cultura musicale è restia a riconoscerla modernità dell'arte di Brahms, perché soggiace ancora agli strascichi faziosi d'una polemica le cui giustificazioni storiche sono oggi esaurite. Eppure Schönberg aveva ben visto che quando alla morte di Wagner « era stato materia di profondo contrasto » già alla morte di Brahms « apparve nella sua effettiva realtà, ossia la differenza fra due personalità, fra due stili espressivi, non così contraddittori da impedire la contemporanea presenza delle qualità di entrambi in una stessa composizione ». Queste parole Mila le scrisse nel 1966, spiace constatare come dopo quasi cinquant'anni le cose siano ancora probabilmente così. Non parlo di musica classica "non occidentale" perché non è un argomento che si risolve in un topic, e non sono un esperto. Cosa penseresti se scrivessi un topic col titolo "La musica classica occidentale"? Io penserei di essere un po' presuntuoso...(Claudio) Su una cosa nella fretta di scrivere, hai ragione, ho scritto una castroneria: in realtà non intendevo dire che le altre culture non hanno una classicità, ma che non hanno nomi altisonanti da proporre, ma per il resto tu mi confermi quello che già sapevo e che posso evincere da uno di quei manuali verso cui tu ti scagli, accusandoli di centralismo occidentale. e sia ben chiaro a me Rachmaninov piace, non tutto, ma mi piace! (Daniele) ...a me no , mi rappresentano meglio altri.... (Frank) Anche a me, senza dubbio, un conto è il fatto che di un compositore possa piacerti qualche cosa, un conto è sentirsi rappresentati da quel compositore. In primis per la Francia penso che dovresti approfondire Messiaen, ma veramente tanto. (…e forse pensavo a Ravel e Debussy, va beh) (Frank) Messiaen è la nuova frontiera della musica. Berio è un'altra faccia della frontiera della musica. (Kappa) Anche qui, cari Frank e Kappa, sono sicuro di avere già detto quanto sia stato grande Messiaen e di non aver alcun problema ad annoverarlo fra i grandissimi e dunque non capisco perché insistiate. Se poi è perché lo volete prima di Stravinskij, mi spiace: per voi sarà così, ma non per me. Ritorniamo ai gusti! Vivaldi? (Daniele) Chiedilo a Bach e alle sue trascrizioni…lui sapeva chi omaggiare Anche Vivaldi potrebbe essere ok (notare il potrebbe) (Frank) Allora ritorniamo ad Alberto Basso: « Una delle qualità più stupefacenti dell'uomo Bach – e che ne fa un caso quasi unico – è lo straordinario interessamento per le opere altrui, insieme al rispetto assoluto, quasi verginale, per la loro arte, senza riceverne nulla in cambio neppure quella cortese attenzione che è propria di una società civile. Lo studio fu lo scopo della sua vitae la sua arte fulo specchio di una applicazione scientifica costante. (...) » Il fatto che Bach abbia trascritto brani da altri compositori come Vivaldi e Pergolesi e altri non li rende per questo di pari livello al suo. Altrimenti tale sarebbe anche il Duca Johann Ernst di Sassonia-Weimar di cui Bach trascrisse un concerto. Vivaldi fu un grande compositore, Ma Bach fu un gigante, e qui mi fermo! Ma secondo te nella storia della musica (occidentale ) in quanti compositori hanno saputo fare un qualcosa che sia grande quanto L'Arte della Fuga o il Quartetto Opus 130 con annesso come finale la Grande Fuga? - cavolo non mi viene in mente nulla di Mozart aiutooooooo!!!!! -. (Daniele) Appunto, rinnovo, sfilalo (Frank) Allora, caro Frank, se tu ricordi bene quanto scrissi nel forum di Edumus, Mozart, fra i tre grandi giganti è sicuramente quello a me meno affine. Non ti nascondo che molto spesso a sue musiche preferisco ascoltare musiche di altri compositori. Ciò non toglie che Mozart sia stato un grandissimo compositore e sicuramente oggi è un sentire molto comune: è lui il più grande in assoluto fra i musicisti. Non sarebbe giusto dunque toglierlo, nel farlo si farebbe una cosa assolutamente arbitraria e che farebbe, ancora una volta, prevalere quello che è il gusto personale ad una imparziale analisi di questo gigante. Mmmmm... Non sono d'accordo praticamente su nulla di quello che hai detto Daniele ma evito di rispondere perché come ho già detto questo argomento è infinito e sostengo l'idea che comunque parlarne non porterebbe a nulla, non farebbe in modo di cambiare la tua idea e tu non faresti in modo di poter cambiare la mia... Quindi meglio restare in amicizia senza sprecare tempo inutilmente Scusate se mi sono autoquotato ma rileggendo mi sono reso conto che il senso può essere ambiguo... L'ho detto perché ho espresso il mio punto di vista già su altri topic non perché sia realmente inutile. Mi fa piacere però vedere dove andrà a finire questa questione... (Simone) Caro e gentile Simone, non sta certamente a me decidere e dettare quali siano i diritti e doveri di un moderatore di forum. So che solitamente quello che ci si aspetta da un moderatore, in generale, è una, quanto meno, certa imparzialità nei confronti dei punti di vista se enunciati educatamente. Ciò detto, ti prego di credermi, in verità io son ben felice che anche tu dica la tua, perché sei un professionista e ho avuto modo di leggere comunque il tuo equilibrio nel proporti. Avrei preferito forse che anziché limitarti a dirmi che non sei « d'accordo praticamente su nulla» su quello che ho scritto, me lo avessi un po' più motivato, se non altro per poi poter risponderti. Penso quanto meno di meritarmelo, altrimenti così si chiude la bocca alle persone anche se, è pur vero in un secondo momento hai tentato di correggerti, e te ne dò atto. A meno che anche tu ritieni che sto delirando... e allora.....! Bravo, comunque, a chiunque sia arrivato qui in fondo!
  25. Ed è subito sera Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. Salvatore Quasimodo
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