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Piano Concerto - Forum pianoforte

danielescarpetti

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Tutto postato da danielescarpetti

  1. Sicuramente un’altra cosa che accomunò Bartók al prediletto Beethoven fu l’amore per la Natura, amore che lui estendeva anche al mare oltre la montagna e la campagna. Sole acqua, alberi, prati, costituivano per lui un attrazione ed una vera propria fede. Credeva molto nelle ascendenze astrologiche e Béla Balász ricordava molto volentieri un’intera notte passata con lui al chiaro di luna a parlare di questi argomenti. Fu proprio Béla Balász a fornirgli la trama per il balletto Il principe scolpito nel legno Opus 13 Iniziato nel 1914 e terminata nel febbraio 1915 e, nel sito di Terenzio, si possono trovare in merito altre informazioni.
  2. Inni delfici Inno delfico n. 1 Inno delfico n. 2 Oreste di Euripide Epitaffio di Seilikos Video Epitaffio di Seilikos
  3. ... e, convenendo completamente con te su tutto il ragionamento che hai fatto, sarebbe opportuno domandarci chi sono oggi i seminatori di discordia. Voglio dire: da un lato abbiamo degli assassini fanatici della peggiore specie che, in questo caso, si trincerano dietro ad una religione ma che in passato si sarebbero trincerati dietro a ideologie o altre religioni. Dall'altro abbiamo le nostre democrazie nate dalla Rivoluzione francese dall'Illuminismo ecc. Oggi, i seminatori di discordia, vanno ricercati in quest'ultime: fra quanti all'interno di esse soffiano sul fuoco dell'immagine di una guerra di civiltà, che invocano il ritorno della pena di morte e che non vogliono riconoscere a chi, provenendo da altre nazioni e da altre culture, e vivendo ora nelle nostre nazioni, gli stessi doveri e gli stessi diritti nostri, a cominciare proprio da quello di poter avere i loro regolari luoghi di culto. Non ci sarà mai salvezza alcuna finché non comprenderemo veramente che l'unica maniera per sconfiggere il fanatismo, l'estremismo e l'integralismo, di ogni colore o religione, è quella di creare un mondo più giusto dove non esistano più differenze di qualsiasi tipo fra tutti gli esseri umani.
  4. Ci teneva parecchio Bartók ad evidenziare tutte le cose che lo facevano assomigliare al suo compositore preferito: Beethoven. Fra queste sicuramente ci fu il fatto che entrambi furono prevalentemente compositori strumentali e che entrambi composero un’unica opera lirica che non è annoverata fra quanto di più importante uscito dalla loro penna ma che, ciò nonostante, per il significato intrinseco è assai preziosa. “Il castello del principe Barbablù” opera in un atto Opus 11 Composta nel 1911, andò in scena solo però nel 1918. Terenzio nel suo sito ci fornisce informazioni molto importanti e anche il testo. Dunque perché è assai preziosa quest’opera nel suo significato intrinseco? Già la scelta del soggetto lo fu. Il compositore si fece elaborare la trama dall’amico Béla Balász che fu tratta da un poema di Maurice Maeterlinck: Ariane et Barbe-Bleue che a sua volta s’ispirò alla famosa fiaba di Charles Perrault. Già nel 1907, il compositore Paul Dukas, compose una sua opera lirica, traendo spunto da questo poema ma, fra le due opere non ci sono praticamente assonanze di nessun tipo. In realtà l’opera di Bartók trova assonanza più con Pelleas et Mélisande, opera di Claude Debussy del 1902, tratta anch’essa da un altro poema di Maurice Maeterlinck: non solo il proposito del compositore ungherese fu quello di creare un equivalente, nella sua lingua, della declamazione melodica perfetta creata dal francese nella sua ma il giudizio che Giuditta esprime fin dall’inizio, è lo stesso lamento di Mélisande e le due storie si svolgono entrambe nelle stanze di un castello e se Mélisande è dispiaciuta che in esso non vi è luce, non ci sono aperture né finestre, Giuditta deve constatare che i muri del castello di Barbablù sono grossi e opachi ed impediscono alla luce di filtrare, privi di finestre e presentano una serie di sette porte chiuse ermeticamente e si può dire che entrambe queste dimore discendono dalla casa de La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe: in tutte queste opere, le case e il castello di Barbablù hanno le caratteristiche di un tomba per tutti i suoi abitanti. Il castello ha dei veri e propri tratti umani. Le pareti sono umide ma non di acqua, di sudore e sembrano piangere, aspetti vegetali, animali e anche umani si sovrappongono: sono tutte le sofferenze a cui hanno dovuto assistere. Quando viene aperta la prima porta, con orrore si entra nella camera delle torture e i muri trasudano rivoli di sangue e la musica ce la presenta con un trillo di violini sotto un grido stridulo degli ottoni e la dissonanza è affidata alle trombe con sordina. Il sangue è poi presente anche all’apertura della seconda porta che dà sulla stanza delle armi: fanfara di corni, trombe, oboi e clarinetti e ai corni è affidata questa volta la dissonanza del sangue. La terza stanza è quella del tesoro, un tesoro pieno di sangue: accordo delle trombe e tremolo d’archi mentre la dissonanza del sangue si muove irrequieta nei flauti, oboi e clarinetti. La quarta porta dà su un giardino magico le cui rose hanno il gambo insanguinato e la terra pure è insanguinata: gli archi vibrano e tremano. La quinta porta dà su un terrazzo dove si possono vedere tutti i terreni di Barbablù dove «le nuvole gettano ombre insanguinate». I terreni sono descritti musicalmente dall’orchestra piena, rafforzata dal suono dell’organo e qui, il riferimento è ai grandi accordi della Cathédrale engloutie di Claude Debussy. La sesta porta si apre su un lago: un lago fatto di lacrime. Giuditta apre la settima porta ma, sorpresa, a differenza di quello che immagina e teme di vedere, in quest’ultima stanza non ci sono segni di dolore ma ci sono, vive, le tre donne precedenti di Barbablù: una per ogni fase del giorno: la prima l’ha incontrata al mattino, la seconda al pomeriggio, la terza la sera e, la quarta - lei Giuditta - che ha incontrato alla notte. Sette sono le porte, come sette sono i giorni in cui Dio creò il mondo, sette sono i giorni della settimana, sette sono le note della scala diatonica. A tutto ciò si sovrappone il numero tre, ovvero la Trinità che attende la quarta sezione per essere completata. Giuditta è la regina della notte che domina in bellezza e ricchezza su tutte le altre. L’opera di Bartók, a differenza di quella di Mozart, segna il trionfo della notte, una notte lunghissima e terribile che annuncia il sangue e le lacrime che da lì a poco interesseranno l’umanità: la prima guerra mondiale, e purtroppo … ancora tuona il cannone!
  5. È inevitabile: l’apparire sulla scena di un’arte nuova porta come ovvia conseguenza la fine della vecchia. Nacquero così in tutta Europa delle vere e proprie società tese ad affermare queste nuove tendenze in contrapposizione delle vecchie guardie. Bartók fondò assieme a Kodáli nel suo paese la Nuova Unione di Musica Ungherese che però non riuscì ad affermare la musica nuova e ad agevolarne l’esecuzione. Fu in questo periodo che nacque quella breve e sensazionale composizione per pianoforte che prese il nome di Allegro barbaro che scandalizzò la capitale ungherese a cominciare proprio dal titolo che sembrò quasi un rifiuto della civiltà. Quello che sorprese poi gli ascoltatori fu la sistematicità di un’azione che mai si ferma. Bartók lo intese come primitivo e infatti esso è basato quasi unicamente su quello che è l’elemento primario della musica: il ritmo e, inoltre i furore percussivo del suono fugge le scale tonali moderne per tornare a quelle arcaiche. Per circa tre minuti il pianoforte è trasformato in un doppio strumento a percussione: oltre all’ovvio picchiare dei martelletti sulle corde, si aggiunge quello artificiale delle dita del pianista sui tasti.
  6. ... e qui invece si parla di come contraffare la verità. Io penso che fra i giornalisti ci siano - come in tutte le categorie del resto, solo che qui ha un peso enorme - persone che, a prescindere dalle loro idee, fanno il loro lavoro con coscienza e buona fede e chi, purtroppo no. Un giornalista - sempre a prescindere dal proprio pensiero - dovrebbe dare e preoccuparsi di dare notizie vere e chi non lo fa è disonesto, professionalmente parlando. Non so negli altri paesi ma è certo che in Italia esiste una macchina del fango terribile ... e questo non va bene. Macchina del fango che ha come fine principale quello di equiparare tutto e tutti, di confondere le idee dell'opinione pubblica e renderla apatica a qualsiasi notizia.
  7. Io continuo a mandare dei likes a tutti perché continuo a trovare che in tutti i vostri interventi ci sia del "vero" e del "condivisibile". Non penso che le vostre posizioni siano poi così inconciliabili, e quello che scrivete è l'ennesima dimostrazione di come la realtà sia molto più complessa di quel che solitamente si tende a fare quando si prende partito.
  8. Vorrei chiarire una cosa con Claudio: a me va benissimo che la musica venga usata in quella maniera che tu riporti. Non capisco una cicca di quello che dicono ma voglio pensare e sperare che dicano cose buone. E' una musica - la loro - che è lontana 1000 anni luce dai miei gusti musicali ... ma va benissimo. Per me anche questa è Arte e non fa parte della "stupidità della musica", di cui parlavo sopra e ha il merito - appunto - di avverare quello che il post proposto da Frank diceva: la musica ha il potere di unire, la musica fa saltare le barriere di ogni tipo. Ho dato un like a tutti perché in tutti i vostri interventi c'è del condivisibile per me e, anche questa la dice lunga, su come la verità possieda tante e innumerevoli. se non proprio contraddittorie, sfaccettature.
  9. Grazie! Sottoscrivo ogni cosa lì scritta.
  10. Sono d'accordo con te: l'affetto e l'amore sono le cose più importanti. In realtà io, nello scrivere stavo facendo un discorso di carattere generale e non mi riferivo tanto o solo a mio figlio. Ho bene in mente quanto diceva il coro greco Claudio: le colpe dei padri ricadranno sui figli. Sono perfettamente consapevole che alla più giovane generazione attuale stanno cadendo addosso tutte le colpe della generazione precedente: le mie colpe. Sono anche perfettamente consapevole che non c'è mai peggio al peggio. Sono un papà - e non un padre che non mi piace - e proprio perché amo particolarmente i miei figli... sono molto preoccupato e quando si è preoccupati, probabilmente si sbaglia ancor di più.
  11. Parecchi anni fa in un forum musicale nel definire l'Arte, scrissi che essa è un'attività non economica che, collegandosi con l'evoluzione dell'estetica, vuole rappresentare la realtà che circonda l'umanità. Apriti cielo! La mia affermazione provocò un vespaio di polemiche tese ad affermare la “neutralità” dell'arte nei confronti delle idee e delle filosofie umane. Allora non avevo ancora letto Milan Kundera, ma ora che l'ho fatto penso di dover correggere quella mia affermazione in questa maniera: chi pratica un'Arte più che rappresentare la realtà persegue «un'intenzione di conoscere, di capire, di cogliere questo o quell'aspetto della realtà». E' ovvio: questa definizione che in parte corregge quella più assoluta da me espressa alcuni anni fa, non accontenterebbe i sostenitori della “neutralità” dell'Arte ma quello che a me pare del tutto evidente è invece che l'uomo, fin dai suoi primi grafiti fatti nelle caverne, cercò di narrare la sua vita e, dunque, di interpretare la realtà che lo circondava. Con l'Arte, l'umano esplica quella attività che più di ogni altra lo avvicina all'assoluto, cercando di raggiungere un grado di bellezza, perfezione e verità inarrivabile e, se penso ai tanti capolavori di ogni arte, non posso che convenire su tutto ciò. Milan Kundera afferma anche che «Quel che un giorno resterà dell'Europa non è la sua storia ripetitiva che, di per sé non rappresenta alcun valore. La sola cosa che abbia qualche probabilità di restare è la storia delle sue arti». E qui sta il punto che si collega con quanto scritto nel post che tu Frank citi: il pensiero umano, sia esso di tipo religioso o politico è sempre relativo. Dell'uomo resta solo ad imperituro monito la sua Arte - quella vera - che non viene mai scalfita dal logorio dei tempi. E a me fa un immenso piacere che sia stato lo stesso grande scrittore ad esplicitare questo concetto in occasione del premio che gli fu consegnato a Gerusalemme alcuni anni fa nel suo discorso di ringraziamento: «Dice un bellissimo proverbio ebraico: L'uomo pensa, Dio ride.(...) Ma perché Dio ride guardando l'uomo che pensa? Perché più gli uomini pensano, più il pensiero dell'uno si allontana dal pensiero dell'altro.(...) Ma l'uomo diventa individuo proprio quando perde la certezza della verità e consenso unanime degli altri...l'arte (è) nata come eco della risata di Dio e (...) ha saputo creare quell'affascinante spazio immaginario in cui nessuno possiede la verità e in cui ciascuno ha diritto ad essere capito.(...) Ma è tempo che io mi fermi. Stavo per dimenticare che Dio ride quando mi vede pensare ». Milan Kundera è scrittore sia di romanzi che di saggi e, in ambo i generi, una delle protagoniste principali è la grande musica occidentale, questo perché suo padre fu musicista ed egli stesso, prima di diventare scrittore, fu tale. «(...) Circa un anno prima della morte di mio padre, facevo con lui la nostra solita passeggiata intorno all'isolato e da ogni parte udivamo canzoni. (...) Mio padre si fermò, alzò gli occhi verso l'apparecchio da cui giungeva il rumore ed io capii che voleva comunicarmi qualcosa di molto importante. Fece un grosso sforzo per concentrarsi, per riuscire a esprimere quello che aveva in mente, poi lentamente e con fatica disse: “La stupidità della musica”!” Che cosa voleva dire mio padre con queste parole? Voleva forse insultare la musica, che era la passione della sua vita? No. Io credo che volesse dirmi che esiste uno stadio originario della musica, uno stadio anteriore alla sua storia, anteriore al primo interrogarsi, anteriore alla prima riflessione, anteriore all'inizio del gioco con un motivo e con un tema. In questo stadio rudimentale della musica (la musica senza il pensiero) si riflette la stupidità connaturata dell'essere umano. Perché la musica si elevasse al di sopra di questa stupidità primitiva, c'è voluto un immenso sforzo della mente e del cuore, e questa è stata una curva splendida che ha dominato dall'alto secoli di storia europea e si è estinta al punto massimo della sua traiettoria, come il razzo di un fuoco d'artificio.(...)». Si tratta di un estratto dal romanzo “Il libro del riso e dell'oblio” che oltre a rappresentarne uno dei momenti più importanti, esprime in maniera assolutamente condivisibile, quello che è il triste tramonto della “musica colta” iniziata già dal Novecento. La grande musica d'Arte è sempre più ghettizzata, sia quella che solitamente chiamiamo classica sia, ancor di più, quella moderna e contemporanea. Questo proprio perché nel nostro scorcio d'epoca l'umanità sta ritornando ad uno stadio di stupidità originaria. D'altra parte come ci ricorda il compositore siciliano Salvatore Sciarrino nel suo libro-lezione “Le figure della musica da Beethoven a oggi”, le masse sono sempre state refrattarie all'Arte, uniche eccezione la tragedia greca e il melodramma ottocentesco. Questo perché: «(...) In definitiva le opere d'arte ci servono più per i problemi che sollevano che per i problemi che hanno risolto; per quello che rendono possibile servono, e non per ciò che hanno definito. L'arte è dunque partecipe della scoperta creativa del moderno, eleva la coscienza umana. Allo stesso tempo l'arte riflette anche i disastri e le incongruenze della vita. Sarebbe errato ignorare la valenza terapeutica dell'arte, il cui soggetto preferito, in percentuale schiacciante, è il dolore umano, lo sfinirsi della felicità, anziché lo scomporsi nella baldoria. Dinanzi alla consapevolezza della sofferenza è inevitabile per chi ascolta prendere una posizione. Ecco il vero motivo per cui il grosso della gente non ama la musica colta: impegnarsi nell'ascolto costa fatica.(...) » Due ragionamenti, quello di Milan Kundera e quello di Salvatore Sciarrino con molte convergenze anche se lo scrittore Ceco, in realtà, dipinge uno scenario più apocalittico per quanto riguarda l'arte e la musica in particolare. Purtroppo in gran parte è così: se è vero che le masse furono sempre lontane dall'arte, questo fu vero anche perché vennero volutamente tenute ignoranti da chi detenne il potere laico o religioso che fosse. Oggi, un maggiore acculturamento generale avrebbe dovuto far presupporre un maggiore avvicinamento alle Arti e, invece, nell'epoca in cui tante persone hanno potuto acquisire un così alto grado di sapere, non si è avverato tutto ciò perché in una società basata sul profitto, il potere si è allontanato dal culto dell'Arte e il risultato è quello di vivere in un periodo fra i più mediocri della storia umana e, questa cosa, ce la ricorda ne “Il sipario” sempre Milan Kundera: lui che e vissuto nel mondo comunista orientale e che da quello è dovuto fuggire in Occidente: ritornando nel 1989 all'indomani della caduta del muro di Berlino sul suo suolo natio, con amarezza constata attraverso le parole di un amico che: «(...) Ciò che vedi qui, infatti è la restaurazione di una società capitalistica, in tutti i suoi aspetti stupidi e crudeli, con tutta la volgarità degli imbroglioni e dei nuovi ricchi. L'idiozia del commercio ha sostituito l'idiozia ideologica. (...)». Per questo dico che per me quello che è scritto nel post da te proposto è oro colato.
  12. Grazie Frank per il tuo intervento su cui contavo molto sinceramente. Se ricordi bene, a Milano, durante una conversazione, abbiamo citato Bartòk ed è lì che è iniziata a maturare in me la voglia di parlare di questo compositore che, come ho già detto, sento molto vicino alle mie sensibilità. Di molte delle opere che citi non mancherò, via via, di parlare perché sono indiscutibilmente i capolavori di questo compositore. Grazie a tutti Voi!
  13. Lo spero anch'io mio caro Frank. Il mio timore più grande è sempre quello di sbagliare e, con lui in particolar modo. Mi dico sempre che dovrei essere più accondiscendente, più tollerante ... ma non ce la faccio! Quando vedo e sento certe cose, sbotto e mi arrabbio, probabilmente eccessivamente. Ma il discorso sarebbe molto lungo, complesso e noioso. A me sembra che molti dei giovanissimi attuali siano molto vuoti, apatici e disinteressati a tutto e, ... questo non va bene! Poi, non ultimo, regna sovrana una allucinante maleducazione che sovrasta, trasversalmente, tutte le generazioni presenti e che ricade esponenzialmente sulla parte più giovane e vulnerabile della nostra società .... No, non mi piace, non mi piace affatto il tutto e sono seriamente preoccupato.
  14. Si potrebbe dire che i Quartetti per archi stettero a Bartók in maniera esattamente contraria a come le Sonate per pianoforte stettero a Beethoven. Infatti se per Beethoven le Sonate costituirono un percorso pioneristico di ricerca nell’ambito musicale prima di lanciarsi in altri generi, per Bartók i Quartetti costituirono il riepilogo, in quanto posero quasi sempre la parola fine ad un suo modo di comporre. Detto questo penso sia innegabile che come per il genio di Bonn, il genere quartettistico, fu fra le sue punte di diamante, anche per Bartók, essi sono imprescindibili in quanto costituiscono la massima vetta di questo genere nel Novecento. Il primo fu il Quartetto Opus 7 composto a partire dal 1908 e terminato il 27 gennaio 1909. Questo Quartetto rappresentò per Bartók il riepilogo di quello che fu il periodo giovanile. In esso il compositore si richiamò al contrappunto ma, assai significativo e importante, nell’ambito non solo della sua storia musicale ma anche, più in generale, della storia della musica, fu il fatto che non al massimo esponente contrappuntistico della storia: Johann Sebastian Bach egli si rivolse nel comporlo ma alla scrittura quartettistica dell’ultimo Beethoven. È importante questo perché dopo Beethoven, nessuno dei compositori che seguì, riuscì a comprendere quello che fu il suo estremo messaggio: tutti si riferirono ai quartetti dell’Opus 59 e solo Bartók per primo, esattamente 72 anni dopo, seppe riprendere lì, dove Beethoven lasciò. Il Primo Quartetto dell’ungherese ha una chiara assonanza con la polifonia «libera fondata sulla variazione» di marca strettamente beethoveniana e questo perché: «(…) Per stabilire il proprio stile polifonico Bartók non si rivolge artificiosamente a Bach (…) come farà ben presto la tendenza neoclassica, (…). Bartók non ama mascherarsi e perciò cerca di riallacciarsi direttamente, senza soluzione di continuità alle ultime esperienze di polifonia strumentale che siano nancora interiormente significanti, cariche di una portata espressiva non estinta, non ancora definitivamente catalogata negli archivi storici dello stile musicale. La polifonia dell’ultimo Beethoven sarà il trampolino da cui Bartók muoverà alla costituzione d’uno dei suoi contrassegni stilistici principali: quel contrappunto che chiameremo germinale o auto integrativo, fondato sul lento volgersi di cellule musicali, simile al formicolio delle particelle costitutive della materia.(…)» (Massimo Mila: L’arte di Béla Bartók. Bur saggi) Fin dalle prime note il richiamo è assai chiaro l’Adagio ma non troppo del Quartetto in do#- Opus 131 ma anche il Molto Adagio (Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico) dell’Opus 132 e, in quest’ultimo caso la cosa potrebbe non essere affatto casuale, visto che la composizione del Primo Quartetto avvenne proprio dopo la convalescenza e ripresa da una grave malattia. «(…) La scrittura strumentale mostra alcuni primi e timidi esperimenti di una via che Bartók percorrerà fino in fondo: l’esplorazione del rumore e la creazione del suono, di un timbro, cioè, diverso dalla tradizionale voce quartettistica attraverso, l’impiego di tutte le risorse esecutive degli strumenti ad arco (alternanza di staccato e legato, di pizzicato, di glissandi, tremoli, esecuzione sul ponticello, ecc.). Sarà questa una delle vie maestre dell’arte di Bartók: la creazione del suono messa alla stessa stregua dell’invenzione melodica, armonica e ritmica.» (Massimo Mila: L’arte di Béla Bartók. Bur saggi) Buon ascolto e … alla prossima.
  15. Da alcuni anni, Radio Tre, tiene una trasmissione dal titolo "Lezioni di musica". Questa è quella relativa alla Sinfonia n. 1 Opus 21. Questo topic potrà essere usato, volendo, per parlare del nostro rapporto con questa Sinfonia. Sinfonia_n.1_op.21.mp3
  16. Lerccio è una testata satirica e tutte le sue - ovviamente false - notizie hanno come fine, quello di ridicolizzare la politica - o certa politica -. In questo caso è stato preso di mira "Il Giornale" che sembra sia, assai sgrammaticato, un po' come i miei interventi insomma. Oltre al bambino delle elementari chissà che non assumano anche me in quella redazione?
  17. «(…) Ho riconosciuto che le canzoni ungheresi ritenute erroneamente popolari e che in realtà erano canzoni d’autore (…), non offrivano molto d’interesse. Così nel 1905 ho cominciato ad indagare la musica ungherese contadina, fino ad allora quasi del tutto sconosciuta. In questo campo, a mia grande fortuna ho conosciuto Zoltan Kodáli, il quale, grazie alla sua chiaroveggenza e il suo giudizio, mi ha aiutato in tutti i settori della musica con parecchi avvisi e consigli d’inestimabile valore.(…)». Bartók cominciò a frequentare, pastori, porcari e contadini e, tramite loro, scoprì quel retroterra culturale fatto di antiche canzoni ma anche di pesante miseria contemporanea: «(…) Lo studio di tutta questa musica contadina era per me di decisiva importanza, perché esso m’ha reso possibile la liberazione dalla tirannia del sistema maggiore e minore fino allora in vigore. Infatti la più grande parte, e la più pregevole, del materiale melodico raccolto si basava sugli antichi modi ecclesiastici o greci, o perfino su scale primitive (e precisamente pentatoniche); inoltre era irta delle formazioni ritmiche più libere e più svariate, con cambiamenti di ritmo per l’esecuzione ora il tempo rubato ora il tempo giusto. Mi resi conto allora che i modi antichi ed ormai fuori uso nella nostra musica d’autore non hanno perduto nulla della loro vitalità. Il loro reimpiego ha permesso combinazioni armoniche di tipo nuovo. L’impiego siffatto della scala diatonica ha condotto alla liberazione del rigido esclusivismo della scala maggiore e minore ed ebbe per ultima conseguenza la possibilità di impiegare liberamente e indipendentemente tutti i dodici suoni della scala cromatica.(…)». Poi anche: «(…) Io sono convinto che ognuna delle nostre musiche popolari (…) è un vero modello della più alta perfezione artistica. Nel campo delle forme più semplici quelle melodie sono per me capolavori nello stesso modo in cui nelle forme più grandi lo sono una Fuga di Bach (…)». In questo clima nel 1908 nacquero le: 14 Bagatelle per pianoforte Opus 6, veri e propri punti di rottura violenta e polemica verso quel modo musicale da cui, fino a quel momento aveva tratto la linfa: la tradizione ottocentesca. Non solo le canzoni veramente popolari ungheresi, irrompono nel suo mondo compositivo ma anche l’Espressionismo di Debussy , di Ravel e Schönberg e, ovviamente Sravinskij. «(…) Allorquando, su incitamento di Kódaly, conobbi e comincia a studiare le composizioni di Debussy, sempre nel 1907, m’accorsi stupefatto che pure nelle sue melodie hanno una parte importante motivi pentatonici corrispondente a quelli della nostra musica popolare. Dobbiamo certamente attribuirli all’influsso pure d’una musica popolare dell’Europa orientale, probabilmente a quella russa. Nelle composizioni di Igor Stravinskij si avvertono tendenze analoghe; sembra quindi che la nostra epoca mostri correnti identiche anche nei territori geograficamente più lontani l’uni dagli altri: il rinfrescamento della musica d’autore con quegli elementi di quella musica contadina che le composizioni degli ultimi secoli hanno lasciata intatta. (…)». Buon ascolto e … alla prossima!
  18. Non c'è dubbio che tutto si può dire di questa discussione, tranne il fatto che non è allegra. Io non so quali fossero le volontà di Pino Daniele ma, voglio supporre e sperare che a decidere di essere inumato a Roma sia stato lui e non altri, compresa in primis la sua famiglia e, questo, perché è giusto che uno, abbia o non abbia il funerale che creda meglio e venga sepolto dove crede meglio, se questo è quello che desidera e la cosa, naturalmente, è possibile. In effetti le due uniche variabili da tenere in considerazione sono queste: desiderio personale dell'interessato e possibilità di realizzarlo. Tutto il resto non conta. Se a queste due condizioni non ci sono obiettivi impedimenti, ritengo sia assolutamente ingiusto non dare corso al tutto. E, questo a prescindere da chi sei stato o non stato. Con questa frase penso di avere già risposto a tutte le tue perplessità, però cercherò di essere più preciso. Se io - parlo in prima persona così faccio prima - al mio funerale voglio i Berliner che mi suonino la Messa Solenne di Beethoven e, guarda caso, i soldi che ho guadagnato nella mia vita di onesto lavoratore, sono esattamente quelli che servono per questo, - compreso spese extra - sarebbe ingiusto da parte di chi rimane e si deve accollare l'onére di accontentarmi, il non farlo. Diverso è se io quella cifra non ce l'ho e pretendo assurdità del genere, ovviamente. Tu parli di progetti... ma questo non c'entra nulla con quello di cui stiamo parlando Luca. Io parlo esclusivamente del post-morte, del come essere, salutato - o non salutato -, seppellito o non seppellito. Tutto il resto fa parte del nostro personale in vita e non necessariamente sarà condiviso da chi viene dopo di noi. Però, chi viene dopo di noi, se è un galantuomo, deve accontentare le nostre ultime volontà in materia di dipartita da questa vita, naturalmente, ancora una volta, se sono ragionevoli.
  19. Che dirti Luca? A parte il discorso di ciò che è impossibile, resta il fatto che penso che chi rimane abbia l'obbligo di accontentare chi se ne va, visto che questi non può difendersi più. E dunque, sorvolando sulle cose impossibili mi soffermo solo sull'esempio 3 e, su quello, penso proprio l'esatto contrario di te. Quanto al fatto che uno come Pino Daniele è di tutti, appartenga a tutti ... anche su questo non sono d'accordo naturalmente. Penso che in definitiva, noi apparteniamo solo a noi stessi: almeno quello!
  20. Non so!!!,,,, io penso che ognuno per quanto sia, avrebbe il diritto di avere i funerali che desidera. Qui tutto importa fuori che quelle che sono state le volontà dell'interessato... e non so se sia "meno male".
  21. Settant’anni fa scomparse – esattamente il 25 settembre – Béla Bartók, compositore ungherese ascrivibile a quel fenomeno musicale dell’Ottocento che solitamente si definisce delle “scuole nazionali” e che coinvolse quei paesi europei che, fino a quel momento, erano rimasti sostanzialmente ai margini della storia della musica occidentale, principalmente incentrata sull’Italia, la Germania-Austria e la Francia. Se Chopin fu l’antesignano di questo fenomeno, Bartók ne fu probabilmente l’ultimo autorevolissimo esponente ma, come per il grandissimo compositore polacco, anche per lui sarebbe estremamente riduttivo considerare la sua musica, la sua arte, esclusivamente ascrivibile a questo fenomeno. Bartók è certamente uno dei compositori da me più amati ed è per questo che sono qui a proporne un percorso musicale che toccherà quelli che si possono considerare fra i suoi più grandi capolavori e, prima di iniziare lì, dove finisce un saggio che Massimo Mila gli dedicò, nel 1961, debbo constatare che, purtroppo, nonostante da quei tempi siano passati ormai 54 anni, in Italia, gli scritti a lui dedicati siano veramente, a dir poco, esigui e che la sua giusta considerazione e fama è relegata a pochissime sue musiche. Conclude dunque Massimo Mila: «(…) la grandezza di questo artista non sta tanto nell’aver aperto ad altri una via che essi possano seguire, quanto nell’avere trovato per sé, pur partecipando a tutte le tendenze e a tutti i tentativi della musica moderna, una soluzione artisticamente valida ai problemi del linguaggio musicale: soluzione che non si potrà mai identificare con nessuno dei due poli principali tra i quali si è svolta la sua vicenda musicale (…) neoclassicismo tonale da una parte, e l’espressionismo dodecafonico dall’altra. Espressionista ma non dodecafonico, tonale ma non classico.(…)» (Massimo Mila: L’arte di Béla Bartók. Bur saggi) La mia prima proposta di ascolto è la Rapsodia per pianoforte Opus 1 del 1904. Come nel caso di Beethoven, il numero di catalogo, non deve trarre in inganno: il compositore ungherese aveva già composto altro ma, è con quest’opera che egli raggiunse la «perfezione del periodo nazionalistico». Le sue radici musicali traevano linfa da Listz, Wagner e Richard Strauss ma il suo amore, mai rinnegato e più profondo, andava alla musica di Beethoven e Schumann. Il Bartók di quest’opera non conosceva ancora «l’autentico canto popolare delle campagne ungheresi con la sua saporita rozzezza dialettale», questo avvenne più avanti, ma raggiunse in questa musica un grado di perfezione, non certo eguagliabile a quello che avvenne in seguito, ma che merita comunque un accurato e rispettoso ascolto. Buon ascolto dunque a chi lo farà e … alla prossima puntata.
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