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Piano Concerto - Forum pianoforte

RedScharlach

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  1. Un esempio di "metronomo doppio" in riferimento a quanto detto nel post
  2. Un esempio di "metronomo doppio" in riferimento a quanto detto nel post
  3. Non so se questa discussione è già stata proposta. Ho fatto una ricerca sul forum ma non ho trovato nulla ... se ripeto qualcosa di già detto, mi perdonerete! Volevo segnalare questa teoria del "metronomo doppio" proposta qui da Wim Winters. Mi direte che è storia vecchia: qui però abbiamo la possibilità di ascoltare numerosi esempi, da Mozart e Beethoven a Chopin e oltre. Giro qualche esempio anche nelle sezioni dedicate a questi compositori. https://www.youtube.com/watch?v=6EgMPh_l1BI
  4. Un principio simile si potrebbe trovare in Beat Furrer
  5. Sì ... Mi rendo però conto di essere stato riduttivo: sembra che il filtro sia esempio per eccellenza di codice, ma non è così. Il filtro, essendo selettivo, per sua natura "riduce" il materiale, lo "depura". Può quindi avere una sua funzione. Ma ci sono molte altre possibilità per "aumentare" il materiale (in Questo si parla di "far lievitare" il materiale): bisogna ovviamente formulare dei codici adatti. Potenzialmente potrebbe essere una figura. Per quale motivo uso il condizionale? Perché la figura è necessariamente determinata dal contesto. Se il contesto (ciò che precede e segue) afferma in qualche modo (in qualsiasi modo: per analogia uguaglianza discontinuità contrasto affinità...) l'identità di ciò che si è determinato mediante i codici, allora sì, ciò che si è determinato è una figura. Come avviene nell'ultimo esempio che hai postato. Esempio che (per quanto ci può interessare una affinità stilistica) non è molto "alla Donatoni", in quanto fin troppo articolato. Almeno per un inizio brano probabilmente non funzionerebbe. Ma (ribadisco) faccio questo rilievo solo se ci proponiamo qualcosa "alla Donatoni".
  6. Dimenticavo un aspetto fondamentale. Dicevo che il risultato dell'applicazione dei codici non implica l'alea; al contrario, può determinare una certa omogeneità. In realtà, a partire dagli anni Settanta, l'applicazione dei codici in Donatoni comporta l'emersione e la definizione della figura. I codici possono selezionare altezze, intervalli, ritmi, direzioni melodiche: vengono quindi adottati in funzione della loro capacità di determinare delle identità riconoscibili, ossia delle figure.
  7. Momi sì, in alcuni brani, soprattutto quelli di qualche anno fa. Filidei forse, saltuariamente. Billone direi proprio di no. No, il codice era un mezzo per raggiungere il distacco dalla materia. Senz'altro. Nella tesi che ho citato ci sono anche diverse interviste a suoi allievi degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta... Sì e no. Il risultato in realtà, almeno a partire dagli anni Settanta, ma forse anche prima, non corrisponde all'alea. Al contrario, l'applicazione di un codice può determinare una certa omogeneità. Ad esempio, filtro una pagina dodecafonica mantenendo solo i suoni Do Re Mi Fa Sol La Si: ottengo una rilettura diatonica. Oppure vedi alle pp. 91-94 della tesi, dove si parla di Argot: lì troviamo la rigorosa applicazione di codici, ma il risultato è tutt'altro che aleatorio (difatti ci troviamo di fronte una semplice sequenza di scale ascendenti e discendenti).
  8. Esattamente, il codice è ciò che hai descritto. Niente di particolarmente complesso, in sé. Vuoi un esempio concreto di codice in Donatoni? Vedi a p. 174 https://www.scribd.com/document/246448246/Tesi dove si riportano degli appunti di lavoro di Duo pour Bruno. In alto si legge "b. 82 (da b. 55)": vuol dire, evidentemente, che la battuta 82 è una rilettura di battuta 55. Di seguito si leggono in codici, applicati alle famiglie orchestrali. Alla prima riga si legge il codice riservato agli ottoni: "dai clarinetti, ottava sotto, leggono sempre secondo la non-ripetizione: accentano (pp - ff) le note del tema". E così via. Per quanto riguarda gli emendamenti del codice e i sottocodici, suggerisco di leggere le pp. 103 e 176, in particolare dove si parla di plasticità. Tieni presente che l'intervista di Restagno è del 1990 ma Donatoni parlava di codice già negli anni Sessanta: in trent'anni ha senz'altro modificato il suo modo di concepire le tecniche compositive. I princìpi sono però quelli che abbiamo detto. L'esempio di codice che hai portato tu è corretto. Tieni presente però che Donatoni spesso preferiva non iniziare da una cellula (tre note) da far proliferare: più di frequente prendeva una pagina, sua o di altri compositori, e ad essa applicava i codici. Ad esempio (banalizzo) prendeva una pagina di un brano di Stockhausen e applicava un filtro: "rimangono solo le note pp", oppure "rimangono solo le note Do Mi Sol" (in quest'ultimo caso si potrebbe prendere Gruppen e farne uscire una rilettura diatonica).
  9. La visione sarebbe certo sconsigliata ai minori, temo però che i minori questo consiglio non lo ascoltino. Al contrario. Il web, YouTube in questo caso, amplifica l'imbecillità in modo incontrollabile. Ciò che un tempo poteva succedere all'interno di una classe, rimaneva sostanzialmente chiuso all'interno della classe. Ora l'inciviltà deve essere comunicata al mondo intero. Il problema dell'emulazione è reale: se vedo che in quella classe (magari dall'altro capo dell'Italia) si sono spinti a tanto, cosa posso inventarmi per superarli in nefandezze? Qualunque cosa sia, di sicuro farò in modo di farmi fare un video dai compagni classe, per lasciarne testimonianza e perché l'umiliazione subita dal professore di turno non rimanga confinate fra le mura della classe. E pur essendo favorevole all'impiego delle nuove tecnologie in classe, trovo tutto questo molto rischioso.
  10. Mi fa piacere condividere le riflessioni di un grande musicista sul tema di cui avevamo discusso tempo fa. Alexander Lonquich 28 settembre alle ore 19:11 · Firenze, Tuscany · A PROPOSITO DELLA NATURALEZZA IN MUSICA Cosa sta dietro al fatto che quando si incontrano dei musicisti che si stimano a vicenda, la premessa per poter suonare assieme consista in un codice “sintattico” condiviso, avvertito punto per punto e certamente non solamente teorizzato? Capace, affrontando delle opere del passato, di far riconoscere al gruppo se è il caso, al di là delle magari generiche dinamiche presenti nella partitura, di sentire insieme in modo indubbio quando si tratta di crescere o di diminuire, anche riguardante degli eventi microscopici, appoggiando alcuni valori più di altri? A percepire di un pezzo l’evoluzione tensiva, cogliendo picchi e valli fino ad individuarne il culmine e magari il defluire successivo? Ad avere la sensazione di cogliere il tempo giusto, le relazioni ritmiche precise, potersi mettere d’accordo su delle sottigliezze dell’articolazione, oltre l’approssimazione della scrittura e le rigidità presente nelle indicazioni metronomiche? A individuare in molteplici casi la necessità di varie libertà agogiche e di possibili rubati, rendendo convincente tra l’altro i continui spostamenti d'equilibrio all’interno della tessitura sonora tra il fluire orizzontale delle singoli voci e la densità verticale come risultante armonico, tenendo certamente conto dei riverberi, sapendo che ogni acustica esiga dei tempi leggermente diversi? E, infine, a percepire in modo nitido l’espressività dei singoli intervalli, uno per uno, intuendo per esempio di base cosa distingue “l’oggettività” di una quarta o quinta dall’agire affettivamente, intrinseca al vissuto abbinato a una terza o sesta, a metaforizzare dei passi riguardante delle seconde maggiori ascendenti o magari a sentire riverberare dei lamenti nelle seconde minori discendenti? La tentazione di voler affermare senza dubbio che nella natura umana tutto ciò sia platonicamente predisposto e semplicemente da riconoscere è grande, il che scatenerebbe probabilmente lo scherno e l’ira della maggioranza di chi oggi svolge delle ricerche estetiche e filosofiche sul campo. Da musicista attivo non ho per nulla la pretesa e l’ambizione di dare dei giudizi nel riguardo. Però come ipotesi di lavoro funziona egregiamente quella ricerca del respirare insieme in base a un sentire comune così spesso premiata dai buoni esiti sopra descritti. Magari delle discipline comparative hanno già dimostrate attraverso un’ attenta analisi delle musiche lontane dalla nostra area culturale che una condivisione “universale” non esiste, che per esempio la psicologia del comunicare sonoro nella musica tradizionale degli aborigeni non corrisponda minimamente al nostro. Rimane però l’evidenza che per noi l’approccio intuitivo unito alla capacità d’analisi sia la bussola. E pare lo sia stata forse anche di più nel passato, basta pensare alla teoria degli affetti rinascimentale e barocca, alle esplicitazioni pratiche nei trattati settecenteschi. C’è però anche da osservare che, direi nettamente a partire dagli ultimi decenni del settecento, la crescente tendenza alla massima soggettivazione nel comporre spinse alcuni autori ad abbandonare la precedente naturalezza di un approccio comune almeno nella propria area geografica, a buttarsi ad un corpo a corpo con ciò che prima pareva legge universale. E così troviamo i mille sforzati e crescendi seguiti da un piano subito in Beethoven, come se lui volesse piegare alla sua volontà, in maniera molto più accentuata dei suoi immediati predecessori, ciò che prima era affidato all'accadere appunto di un “naturale” fluire, inaugurando un finora inedito gioco con le tensioni melodiche e armoniche. Intensificando il discorso anche ritmicamente fino a prescrivere un forte separato da quello precedente a ogni metà battuta nel fugato dell’ultimo tempo della Nona, effetto vocale e strumentale quasi percussivo, espressione di un sentire dionisiaco. Più tardi, in particolare in Schumann e Mahler, si scriverà sempre di più musica che commenta altra musica, rompendo così l’illusione dell’unitarietà psicologica di un singolo pezzo. Non ci si può più crogiolare nell’illusione dell’immanenza formale e emotiva. Richiami da fonti esterne (autocitazioni, allusioni e citazioni in generale) confermano che ci viene richiesto di rivolgere lo sguardo al di fuori dal giardino nel quale prima ci eravamo così bene acclimatati. Avrà massima importanza l’indicazione del compositore su come suonare un passaggio. Che in Schumann possono farsi parecchio immaginifiche: Wie aus der Ferne (come da lontano), Ungeduldig (impaziente), Sehr rasch und in sich hinein (molto veloce e rivolto verso l’interno di se stessi), Etwas hahnbüchen (un po’ insensato, storto). La "Innere Stimme" (voce interna/interiore), per l'udito puramente chimerica, nella Humoreske modifica l’approccio alle voci presenti. In più, tornando a dei passi già ascoltati, il giovane Schumann ama modificare la dinamica e l’articolazione di molti dettagli, quasi come obbedendo ad un capriccio istantaneo. E, appunto, ci conduce attraverso un gioco di specchi e riflessi a riconoscere opere precedenti sue e di altri, a individuare con i mezzi di una sua personale crittografia musicale personaggi ed eventi reali e immaginari. Ciò ci porta fuori dallo spazio ben delimitato dell’opera compiuta, incoraggiando la mente a tessere delle trame complementari, a volte addirittura supplementari. L'avvertenza “Mit Parodie” (parodisticamente) riferita all'evocazione bandistica del terzo tempo della Prima di Mahler rompe definitamente l’illusone di una forma musicalmente autosufficiente, del resto all'epoca già compromessa in tutt’altro modo attraverso il confondersi di generi nel Gesamtkunstwerk wagneriano e l’uso di tecniche associative nel poema sinfonico. Come già detto molte volte, a partire da Adorno, Mahler coltiva fino dagli inizi sovente il “come se”, l’inserto di elementi estranei, non intriseci a un discorso organico, a tal punto da mettere in dubbio se tale discorso possa ancora esistere. L'apparente “già sentito” domina le sue costruzioni, anche se si discosta di molto dai modelli da lui suggeritoci come appiglio. Il tema iniziale della Quarta, ricavato da Haydn, Mozart e Schubert, non trova nessuna reale corrispondenza negli autori nominati. Le sue indicazioni iper-precise testimoniano irrevocabilmente lo spostamento del terreno sul quale si muove il creatore consegnandoci il risultato delle sue elaborazioni, si è fatto una specie di regista teatrale della propria opera, già così lontano in questo dai mondi altrimenti opposti di Bruckner e Brahms. Già, Brahms: lui compie l’ultimo sforzo di mantenere intatta l’immanenza formale, ma tutta la splendida melanconia albergata nella sua densissima opera pare risultare prodotto di un preciso intento ermeneutico: costituirsi commento tardivo a un mondo destinato a non rimanere percettivamente integro. Ci saranno poi fino a oggi molti autori tendenti a ristabilire in forme nuove degli equilibri puramente interni all’accadere musicale, facendo tabula rasa di tutte le esperienze precendenti come i primi serialisti, o invece cercando di conquistare una “nuova” naturalezza della scrittura. Ma mi pare evidente che il “peccato originale” di una scissione percettiva collettivamente avvenuta sia irrevocabile. Come può reagire l’interprete (intendo con questo anche il lettore di partiture e l’ascoltatore) a ciò? Secondo me cercando di andare al cuore della scrittura di ogni singolo autore, cogliendone non solo ciò che corrisponde a un’idea di naturalezza esecutiva, ma anche gli angoli e spigoli, là dove il Schubert o il Debussy di turno è entrato in contraddizione percettiva con l’ambiente circostante, là dove una sua grammatica personale ha avuto la ventura di alterare la grammatica generalmente condivisa. Forse il gruppo di musicisti affini evocato sopra sarà in grado di individuare “organicamente" anche quelle particolarità che sfuggono ad ogni tipo di legge universale che per tanti secoli pareva dominare l’arte del comporre. Incluso delle specificità linguistiche localizzabili, “dialettali”. Ma c’è qualcosa in più: leggo spesso dei commenti indignati su tante operazioni di accostamento tra elementi molto lontani l’uno dagli altri. Che si tratti per esempio di regie operistiche lontanissime dalle prescrizioni degli autori o di abbinamenti di video inusuali a musiche ben conosciute, insomma, di tutto l’ambaradan postmoderno, incluso delle vere e proprie cadute verticali di gusto e di stile. Spesso questo nostro inalberarsi si giustifica in pieno, specialmente quando è evidente l’intento commerciale di un’operazione. Non dimentichiamo però di non poter vivere in un’Arcadia mentale, non sarebbe neanche auspicabile. L’apparentemente distante è dietro l’angolo, siamo noi i primi a proiettarci continuamente verso dei concatenamenti di associazioni inedite. Creare dei ponti sinattici è un’attività prettamente umana. Perché stupirci se ciò succede nella prassi artistica ed interpretativa? Conta la qualità del vissuto. Un’opera comincerà in un momento e finirà in uno successivo, la nostra attitudine ad unificare del vissuto va molto oltre quella breve durata, e non sarà certamente delimitata da essa. Per cui, se siamo musicisti, l’esecuzione concreta con tutti i suoi pregi e difetti in quel momento è la parte più tangibile delle nostre attività, l’unica che l’ascoltatore potrà valutare e forse far sua, ma ci sono molti strati percettivi che non coincidono con quell'arco di tempo, tenendoci in movimento di continuo. Ben vengano. Qualcosa di frammentario persisterà comunque anche in un esprimersi apparentemente compiuto. Ed è lì che troveremo il prossimo aggancio.
  11. In effetti il riferimento a Schubert, in questo contesto, è davvero calzante. In tarda età Claudio Arrau dichiarava, in una intervista: il problema definitivo dell'interpretazione è Schubert. E poi si correggeva: in realtà, il problema definitivo dell'interpretazione è Mozart. Non sono certo in grado di fare l'esegesi del pensiero di Arrau ma credo che - pur presentando difficoltà assolutamente diverse - Schubert e Mozart siano realmente accomunati dallo stesso alone di mistero.
  12. Il suo lavoro sorprende subito nel rincorrersi nervoso delle corde stoppate, pizzicate, nei sibili misteriosi, nello sviluppo di onde sonore, cicliche e sospese su un silenzio come vuoto enigmatico. È possibile leggere il suo interno metafisico come una condizione di irrelatività, negazione di significato? «È possibile leggerlo come negazione di un’evidenza, come rappresentazione di un immaginario sottile, che è espressione della spiritualità dell’uomo contemporaneo. Il suono può essere espressivo di per se stesso e non necessariamente per qualcosa di estraneo che dovrebbe rappresentare o significare. In questo lavoro il trattamento della texture, scabra, materica e tuttavia astratta, supera l’aspetto propriamente figurativo, cercando di evocare piuttosto che raccontare, ricorrendo a procedimenti di accumulazione e rarefazione, densità e trasparenza, e disegnando un’arcata formale di ampio respiro attraverso la graduale metamorfosi dei gesti sonori iniziali. La materia dell’opera è silente, ma viva, capace di costruire una drammaturgìa sonora fortemente polisemica. In una simile concezione, la stessa gestualità legata al materiale di cui si compongono gli strumenti ad arco costituisce una possibile fonte di senso. I significati quindi risiedono nel flusso sonoro, concepito come somma di elementi armonici e inarmonici, e nella gestualità stessa dei musicisti che dipingono quasi una coreografia del suono. L’atto creativo si traduce nel tentativo di catturare l’impressione, piuttosto che fornire una descrizione». Da http://www.ilcorrieremusicale.it/2016/02/18/interno-metafisico-daniela-terranova/
  13. Non saprei cosa aggiungere di meglio... E dunque prendo un altro filo della discussione... Perché, a titolo di cronaca, mi sono ricordato qualcosa sulla musica che si fa da sé: è un'idea circolata fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, con alcuni compositori che avrebbero inteso auto-annullarsi mettendo in atto procedimenti automatici di scrittura. Dato un materiale di base (un accordo, una serie di intervalli...), si applicano ad esso dei codici astratti che lo fanno moltiplicare dando luogo a un brano. Alcuni lavori di Franco Donatoni e Aldo Clementi seguono questi principi. Berio li critica, con la consueta caustica ironia, nella fondamentale Intervista sulla musica. In ogni caso, nulla a che vedere con Mozart - per nostra fortuna, aggiungo.
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