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Piano Concerto - Forum pianoforte

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Penso si parli sempre troppo poco di quest opera, onestamente non mi fa impazzire per come tratta la vocalità e volte mi sorprende il fatto che uno come lui (insomma, qualche messa l’ha scritta) se ne sia uscito con una proposta come questa.

 

Voi come vi ponente nei confronti di quest opera?

 

La reputate alla sua altezza o ha voluto strafare?

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L'unica opera per il teatro lirico composta da Beethoven è il Singspiel “Leonore - Fidelio”, opera che, fin dalla sua genesi, ebbe una ricezione assai controversa. Oggi se questa controversia all'estero è stata completamente superata, altrettanto non si può dire in Italia, dove i teatri lirici, dominati dai sostenitori del bel canto che con pregiudizi duri a morire, vedono in Beethoven un compositore che non ha mai saputo trattare con le voci, pregiudizio solo in parte accettabile e che fortunatamente, negli ultimi anni, da parte di esperti musicologi e di voce è stato ricondotto nella sua giusta analisi.

Beethoven dovette mettere mano alla partitura e al testo di quest'opera, prima chiamata “Leonore” e poi “Fidelio” per ben tre volte e, questo, per arrivare con la sua terza versione del 1814 ad un successo soddisfacente. In Italia però, per apparire la prima volta il “Fidelio” dovette attendere fino al 1883, anno in cui fu dato a Milano al Teatro Dal Verme e questo, la dice già lunga sul rapporto fra il pubblico del Bel Paese e l'unica opera teatrale beethoveniana. La prima versione della Leonora, pubblicata solo nel 1905, venne eseguita invece solo nel 1970 – in occasione del bicentenario della nascita del compositore – anche se non in forma scenica, a Torino all’Auditorium R.A.I., mentre per la sua messa in scena, bisognò attendere il 1979 a Genova al Teatro Margherita.

Eppure…! Eppure l'opera di Beethoven sia nella sua versione prima come “Leonore”, sia nella sua versione definitiva come “Fidelio” è veramente un grande capolavoro degno di stare assieme agli altri grandi capolavori dei grandi operisti di ogni secolo e di ogni nazione. Ma la “Leonore - Fidelio” non è “solo” bellissima musicalmente parlando, è anche importante per il suo contenuto, il suo significato: un inno alla libertà da ogni tirannia e un inno all’amore coniugale.

Già nel 1978, recensendo l’opera che fu rappresentata alla Scala di Milano sotto la direzione di Leonard Bernstein, Massimo Mila così scrisse: « (…) È certo che Mozart e Verdi avrebbero ingranato meglio le scene di commedia del primo atto, ma sarebbero poi impalliditi d’invidia e avrebbero pagato parecchio per raggiungere non solo l’altezza musicale, ma anche la travolgente e tradizionalissima funzionalità drammatica che Fidelio consegue, a partire dal coro dei Prigionieri, nella colossale scena della cella sotterranea dove Fidelio-Leonora salverà il marito Florestan dalla morte difendendolo contro il bieco governatore Pizarro. Dai colori cupi del carcere, dall’aria iniziale del prigioniero languente, dall’ansia di Leonora che riconosce nel prigioniero il marito, dalla pietà impotente di Rocco che gli scava la tomba pur avendone compassione, si sviluppa a poco a poco un nodo fiammeggiante di musica drammatica d’uno spessore di esperienze interiori che non ha l’uguale, nemmeno nelle più dense concezioni wagneriane. Sono davvero tutti gli ideali in cui Beethoven credeva – amore coniugale, consolazione nella famiglia, insopprimibile esigenza della libertà dell’uomo – che qui si accendono in una colata pazzesca di lava incandescente (…) la scena ha valore universale e tremendo di ribellione eversiva contro qualsiasi sopruso della terra: chiunque abbia mai avuto, nel suo piccolo, l’onore di patire ingiustizia, ci si ritrova. E se più avanti, nel finale dell’opera, i canti di liberazione prendono un nobile tono di celebrazione idealistica, qui, nella stretta forsennata dell’insurrezione di Leonora, è invece il momento della giustizia come vendetta, il momento in cui tutti i tiranni si impiccano ai lampioni delle strade, ballandoci sotto la Carmagnola, e tutto questo potenziato, moltiplicato per la furia gigantesca d’un carattere come Beethoven, che nella realtà non avrebbe fatto male ad una mosca, ma nella immaginazione si esaltava fino alla più fiammeggiante temperatura dell’eroismo plutarchiano.»

Beethoven arrivò alla conclusione di questo suo Singspiel solo nel 1805. Prima non aveva mai affrontato questo repertorio, non perché temesse il confronto con quel genere, come molti affermano, ma molto più semplicemente perché non trovò mai uno stimolo sufficiente per farlo. I modelli allora in voga si riferirvono, da un lato, all’opera italiana che il compositore tedesco non amò, dall’altro, all’opera tedesca che ebbe il suo ultimo grande frutto nel Singspiel “Die Zauberflöte” di Mozart. Beethoven considerò quest'opera il massimo capolavoro per il teatro composto dal salisburghese ma, dal 1791, anno del suo concepimento, molte cose erano già cambiate nel modo d’intendere il teatro musicale e il linguaggio fantastico - favolistico usato da Mozart – a quei tempi tanto in voga e indispensabile – era già considerato obsoleto, quando Beethoven cominciò a pensare di comporre un'opera.

Il caso volle che proprio il librettista di “Die Zauberflote” Emanuel Schikaneder, rappresentasse a Vienna il 23 marzo 1802 la “Lodoiska” di Cherubini. Per Beethoven fu amore a prima vista, e non solo per quell’opera, ma per la musica in generale di Cherubini che da quel momento, come egli scrisse al compositore italiano in una lettera vent’anni dopo sarà: « (…) sempre colui, che fra i miei contemporanei, stimo di più. (...) »

Ma cosa aveva di speciale la “Lodoiska” da far così entusiasmare il grande compositore tedesco? Essa le rivelò il potere espressivo e retorico contenuto nella drammaturgia musicale che si sviluppò in quegli anni a Parigi e che ebbe il via dalle rivoluzionarie atmosfere di Gluck, incalzate e sferzate poi dai ritmi della Rivoluzione francese e dal tragico clima del terrore purtroppo a lei seguito.

Fu lo stesso Skikaneder a proporre a Beethoven un libretto “Vestas Feuer” (Il fuoco di Vesta) un'opera eroica in due atti. Presto però, il maestro si rese conto che il canovaccio era assurdo e noioso e, dopo averne musicato una prima scena, alla fine del 1803, lo abbandonò. Il primo passo era comunque stato fatto e il desiderio di dedicarsi alla musica non solo strumentale era forte in lui; nel giro di 14 giorni compose le musiche dell’Oratorio “Christus am Olberge”.(Cristo sul Monte degli Ulivi). Già da questa suo primo lavoro a sfondo sacro, il genio di Bonn dimostrò quali erano le sue idee in merito. Beethoven andò esplicitamente oltre il concetto classico di sacro, distinguendosi completamente, anche in questo, dai suoi predecessori. Egli non si limitò a musicare un testo sacro ma, attraverso esso, volle lanciare un messaggio di libertà, di pace, di fraternità a carattere universale ai contemporanei e ai posteri. E se questo suo modo di esprimersi, trovò la sua massima apoteosi e compiutezza strutturale e musicale in quel monumento assoluto di musica sacra che è la sua “Missa Solemnis” Opus 122 e nell’altro monumento laico che è la “Nona Sinfonia”, già nell’oratorio “Christus am Olberge” ci furono quelle premesse tanto care a Beethoven. Anzi si può a giusta ragione dire che esso fu la premessa proprio del Singspiel “Leonora-Fidelio”, infatti il libretto che Franz Xaver Huber preparò sotto lo stesso controllo di Beethoven, con la descrizione dell’arresto di Gesù nell’orto, il concitato confronto con Pietro e il bellissimo coro finale di lode all’Onnipotente liberatore, anticipò nel meccanismo tragico, la situazione in cui Beethoven si trovò l’anno dopo con l’azione della “Leonora - Fidelio. Le arie di Gesù, del Serafino, la marcia col coro “Wir habenihngesehen”, l’eccitato grido della turba, “Hier ist , hier ist”, preludono le arie, i concertati e i cori del Fidelio. Nel suo insieme e nella sua funzione “Christus am Olberge” allude ad una “passione” che assomiglia più a quella di Florestan e di Leonora, che non a quella di Gesù e dunque ad una passione assolutamente laica e, nell'affermare questo, è importante ricordare che nella mente di Beethoven, la figura di Gesù fu accostabile e paragonabile, alla figura di Socrate, ed è abbastanza indubbio che anche ciò ebbe una sua influenza nell’impostazione che il compositore diede all’oratorio e come vedremo in seguito della “Missa Solemnis”.

Iniziò da parte del compositore, la ricerca di un soggetto giusto per un’opera, ricerca che si rivolse dunque al genere francese da lui prediletto che dopo la Rivoluzione francese gli offrì quegli elementi di rinnovamento linguistico a lui necessari. Il punto di partenza fu proprio là dove Mozart finì il “Die Zauberflöte” e, questo, per riaffermare nella loro interezza quegli ideali, quei simbolismi della vittoria della luce sulle tenebre, intesa, in Beethoven, come metafora di riscatto di un'umanità da secoli umiliata e tiranneggiata. Per fare questo, proprio perché l'era del Singspiel in forma favolistica era tramontata, Beethoven ebbe la necessità di portare la storia in un ambito reale e non fantastico, dove ad agire fossero persone in carne ed ossa. E’ da questi presupposti che un testo come “Léonore où l’amour conjugal” di Jean Nicolas Boully cascò a pennello, corrispondendo in pieno a quelli che erano tutti i suoi fini. Con questo tema egli trovò infatti la maniera di rendere i personaggi di “Die Zauberflöte”, persone reali. Egli era persuaso – come lui stesso asserì - che Fidelio fosse addirittura la: « (…) naturale conseguenza del Flauto magico, e che Florestan e Leonore siano Tamino e Pamina, rinati come esseri umani, e costretti a fronteggiare in quanto realtà ciò che prima avevano conosciuto soltanto in forma di simbolo. (…) »

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Discorso interessante, di quest opera ne so poco e niente (grazie Daniele per le preziose delucidazioni)...magari Thallo potrebbe riprendere le sane abitudini e aggiungere un suo punto di vista...

 

Ricordi Thallo ... "U.o.a.s." ...?

 

http://www.pianoconc...icale-classico/

 

:)

 

Grazie Tiger, e visto il tuo interesse , questa è la seconda parte!

 

 

Ma quali furono i motivi dell’insuccesso di Leonora-Fidelio nella sua prima versione? Come sempre è necessario tenere presenti gli eventi storico-politici incentrati, in questo caso, sulla figura di Napoleone.

Questi, dopo essersi auto-eletto imperatore di Francia, continuò le sue mire espansioniste verso tutto il resto d’Europa. L’allarme nell’impero asburgico salì alle stelle e questo fece si che la censura si facesse sentire ulteriormente. Il Singspiel beethoveniano fu ultimato nel settembre 1805 e dovette passare il visto della censura che, naturalmente, lo bloccò in quanto « non adatto alla rappresentazione ». Iniziò quindi un vasto lavoro diplomatico che durò tre giorni alla fine dei quali, fu imposto a Beethoven di attenuare « le scene più brutali » soprattutto quelle che riguardavano il despota Pizarro. Mentre il compositore per cause di forza maggiore fu costretto a rimandare la rappresentazione dell’opera, la situazione politica ebbe una brusca svolta: Napoleone sbaragliò l’esercito austriaco a Ulm il 20 ottobre e occupò Salisburgo. Da qui iniziò la sua marcia verso Vienna, dove vi entrò il 15 novembre. Di conseguenza, quando il 20 dello stesso mese, si aprì il sipario del Teatro an der Wien, esso fu completamente pieno di ufficiali dell’armata francese solitamente abituati a spettacoli di ben altro tipo a Parigi per non parlare poi della musica, assai complicata per le loro orecchie e, per di più, con un testo in lingua tedesca. Il risultato fu dunque quello di due repliche a teatro quasi vuoto.

Dopo parecchie insistenze da parte degli amici, Beethoven acconsentì alla revisione dell’opera riducendola da tre a due soli atti. La seconda versione fu data il 29 marzo 1806. Nel nuovo palinsesto splendeva in tutta la sua infinita bellezza una nuova Ouverture: quella che noi conosciamo col nome di “Leonore 3” che, fra le quattro concepite per il Singspiel beethoveniano, è certamente un capolavoro assoluto.

Salvatore Sciarrino, compositore contemporaneo così si è espresso in merito a questa Ouverture: «Una musica di slanci e stupori visionari. (…) è composta per blocchi, in secondo luogo è incredibile il suo aprirsi su un’altra dimensione (…).

E’ chiaro che Beethoven sia partito da un semplice contrasto drammatico, raggiungendo un risultato inedito.

Con l’alternarsi brusco tra fortissimo e pianissimo, tra denso e meno denso si determinano blocchi di suono dai margini netti. Sentiamo un’intermittenza fra le due musiche: i frantumi di una melodia sommessa e singhiozzante e i ruggiti di un’oscura tempesta.

Poi le scale aprono il sipario, la musica si ferma, e noi sentiamo uno squillo di tromba librarsi dal cortile esterno.

Riprende la musica e presto si posa.

Di nuovo si apre alla nostra mente lo spazio esterno. Quindi la musica prende a rifluire lentamente.

Non ho fatto alcuna forzatura dicendo che sentiamo i suoni dal cortile.

Questa Ouverture fu composta per l’opera Fidelio. Certo, la conoscenza della vicenda teatrale può mettere sull’avviso e fornire alcuni dati d’ambiente.

Tuttavia è l’autore a pretendere da noi un’associazione spaziale immediata, che proviene direttamente dalla musica. Dove vorremmo che risuonassero gli squilli militari, se non nei cortili delle caserme?

Ecco l’incongruenza spazio - temporale imperversare nel pieno di un pezzo sinfonico. (…)

Lo spazio è una delle principali seduzioni del linguaggio teatrale, e noi comprendiamo che lo scontrarsi fra l’esterno e l’interno sia un derivato della musica di teatro.

E tuttavia dovremmo fare una considerazione più sottile, nel prendere in esame globalmente la nostra tradizione: e cioè l’ampliarsi dell’orchestra romantica costituisce di per sé una presa di possesso fisico, dello spazio. È quasi naturale conseguenza che una lontana frangia si stacchi dal grosso dell’orchestra dislocandosi altrove, come è il caso delle postazioni isolate di Mahler.

Se oggi i suoni elettronici possono muoversi e ruotare attorno al pubblico, è grazie ad alcune idee embrionali disseminate lungo il secolo XIXesimo. »

Ma, anche questa Ouverture, come molta della musica di Beethoven, non fu capita dal pubblico e dalla critica del tempo e fu giudicata inadatta. Per cui il compositore fu costretto, nella sua ultima versione del 1814, a comporre quella che è poi rimasta l’ouverture vera e propria dell’opera. Fortunatamente Gustav Mahler nel dirigere “Fidelio” pensò bene, di inserire la “Leonora 3” al centro del secondo atto fra un cambio di scena e l’altro e, oggi, seppur non accettata da tutti i direttori, molti continuano a perpetuare quella scelta che, a mio avviso, proprio per quella forza e quella bellezza che essa emana, costituisce un valore aggiunto ad una parte dell’opera che di per sé, raggiunge in quella fase il suo più alto momento musicale.

L’opera nella sua seconda versione sembrò dare buoni risultati, ma Beethoven si trovò in un periodo della sua travagliata vita non molto positivo: la sua salute già molto precaria ulteriormente peggiorò e ciò, contribuì ad accentuare le sue caratteristiche più scontrose e dispotiche. Trovò difetti dappertutto: gli ottoni, il coro e, infine, arrivò a litigare col Barone Braun, proprietario del teatro, rimproverandolo degli scarsi introiti. A sua volta il barone gli replicò che quando la galleria sarebbe stata piena, gli incassi sarebbero aumentati. Beethoven furente replicò: « Io non scrivo per il loggione! » Il barone a sua volta rispose: « Ah no? Mio caro signore, perfino Mozart non sdegnava di scrivere per il loggione! »

Fu la goccia che fece traboccare il vaso! In un impeto d’ira Beethoven chiese il ritiro dell'opera; la cosa fu presto fatta e della “Leonora - Fidelio” non se ne parlò più fino al 1814.

Questo atteggiamento di Beethoven, costituisce uno dei punti saldi per cui alcuni, ritengono essere stato il compositore un “reazionario” Ora, indubbiamente visto con gli occhi di oggi e giudicata con la nostra attuale mentalità, la frase da lui pronunciata potrebbe avvalorare le idee di questi, i quali, oltre tutto, sostengono che Beethoven dei principi della Rivoluzione francese, in generale, importasse ben poco e in particolare, quello con cui fu più in rotta di collisione: l’Uguaglianza.

Ma, penso che come sempre, sia importante contestualizzare le cose. Questa frase venne pronunciata all’inizio del XIXesimo secolo, da un uomo di indubbie grandi capacità e genialità; quando cioè, ancora ben definita, fu una distinzione netta fra le varie classi sociali. I frequentatori dei teatri erano i rappresentanti della nobiltà, classe che Beethoven considerò « paurosamente vuota al di là delle splendide e fuorvianti apparenze » e dall’emergente borghesia – classe a cui per altro, lo stesso Beethoven, appartenne – che il compositore considerò, nella sua generalità, mediocre e definì « la massa plebea », perché vista come incapace di innalzarsi al di sopra e di saper realizzare compiutamente la propria personalità. In altre parole, Beethoven, considerò « la borghesia ignorante, superficiale, incolta, dedita solo a lucrare ». Fu anche pur vero che egli non smentì mai chi lo credette appartenere alla classe nobile per via del suo cognome anticipato da un van - in realtà per essere nobili sarebbe dovuto essere un von - ma, questa pretesa, fu legata, sopratutto, al processo in cui si dovette decidere la tutela del nipote, in quanto l’eventuale conferma di una vena nobiliare, gli avrebbe assicurato automaticamente la vittoria della causa di affidamento.

Sul tasso di democraticità di Beethoven, in realtà, mi trovo in perfetto accordo su ciò che scrisse invece Luigi Magnani: « Egli si rifiutava infatti di riconoscere ciò che un uomo è “per casualità di nascita”, sminuiva l’importanza della condizione sociale a cui appartiene, non per livellare gli uomini in basso o in alto, ma per stabilire una nuova gerarchia di valori, per affermare l’autentica superiorità degli spiriti eminenti, che costituiscono quella vera aristocrazia, fiore di umanità, cui egli sa di appartenere.

Aristocrazia rivoluzionaria la sua, in lotta con la falsa superiorità e la supremazia della classe dominante ed insieme contro la mediocrità spirituale e la vita miseramente egoista della classe borghese, disprezzate entrambe da Beethoven perché entrambe di ostacolo al libero sviluppo della personalità umana, alla affermazione piena del merito individuale.(…) »

L’individualismo in Beethoven come in Goethe fu prioritario ed entrambi lo identificano con: « “Il diritto di Natura” - che ha la supremazia su ogni forma meditata di ordinamento e di organizzazione – (…) Intimamente legato a questa concezione illuministica, Beethoven la sostiene contro la nuova tendenza romantica che al diritto naturale oppone il diritto acquisito, all’indipendenza e alla libertà individuale la dipendenza alle istituzioni sociali e alle leggi (…) »

Piero Buscaroli, critico musicale bolognese, a cui si deve una biografia beethoveniana molto discutibile e, sopratutto, molto dispersiva, è certamente in prima linea fra quelli che considerano Beethoven un “reazionario”. Il punto è che Buscaroli crea un Beethoven a sua immagine.

Fra le innumerevoli cose che egli sostiene in controcorrente rispetto alle opinioni più diffuse, è che Beethoven scelse la “Leonore où l’amour conjugal” di Bouilly”, proprio per rendere esplicita la sua avversione verso la Rivoluzione francese affermando così, a dispetto di chi solitamente sostiene il contrario, la sua lontananza dagli ideali da essa propugnati.

Il presupposto del ragionamento di Buscaroli parte dal fatto che Bouilly assicurò che la storia da lui raccontata realmente accade veramente in Turenna. Una nobildonna si impegnò come aiutante presso il carceriere della prigione dove il marito fu incarcerato e riuscì a salvare la sua vita, respingendo con la pistola in pugno, il sicario al servizio di Robespierre, incaricato da questi di ammazzarlo. Da questo Buscaroli ne fa conseguire che essendo:« (…) la tirannide sanguinaria di cui si tratta (...) il culmine criminale della rivoluzione, mentre prigionieri e vittime erano gli aristocratici in attesa del supplizio, s’inquadra alla perfezione nell’antipatia che l’espansionismo francese suscitava ora in Beethoven, e sarebbe grandemente cresciuta negli anni successivi.

Ne viene di naturale conseguenza che la libertà qui invocata non è quella dei saturnali giacobini, ma proprio il suo rovescio ossia il ritorno all’ordine legittimo. Non ne risulta affatto paradossale, a differenza di quanto talora si legge, che la definitiva consacrazione di Fidelio quale capostipite dell’Opera tedesca dell’Ottocento avvenisse proprio nel 1814, in coincidenza col congresso di Vienna. La libertà ritornata che vi si esalta dopo il terrore sanguinario coincide ora con la fine delle guerre di rapina che da un quindicennio straziavano l’Europa. I sentimenti politici di Beethoven hanno compiuto l’intero periplo, la cui conclusione coincide con l’esaurimento del ciclo “eroico” nella sua vicenda artistica personale.(…) »

Dal mio punto di vista vizio di fondo del suo ragionamento sta nel fatto che la “Leonore - Fidelio” se, sicuramente arrivò al suo successo nel 1814, come già ho detto, fu redatta però nella sua prima versione fra il 1804 e il 1805. Guarda caso, proprio in quel periodo in cui compositore, fra le altre, fu alle prese con la composizione dell’Eroica e cioè, proprio nel momento che apprese della decisione di Napoleone di farsi imperatore. La sua reazione, ne parlai già quando scrissi di questa Sinfonia, fu quella di un uomo molto arrabbiato e deluso. Un uomo che dovette prendere atto del tramonto di quella sua grande speranza: che proprio gli ideali propugnati dalla Rivoluzione francese si potessero incarnare in una persona. Se da un lato dunque strappò la dedica della Sinfonia a Napoleone, dall'altro decise di trovare un soggetto che – fra le altre cose – mettesse in risalto la misera fine in cui quei nobili ideali. In realtà la voce di Beethoven si alzò, come sempre nella sua opera, indistintamente contro ogni tipo di tirannia, dapprima quella asburgica, poi quella francese, poi di nuovo, dopo il Congresso di Vienna, quella asburgica. Ma come tutti gli idealisti puri, pur strappando la dedica a Napoleone della sua Sinfonia n. 3, pur componendo un’opera teatrale che mise in chiara luce le degenerazioni del dopo Rivoluzione francese, pur soffrendo per l’invasione che le truppe napoleoniche operarono nella sua Vienna, Beethoven continuò ad avere verso l’uomo venuto dalla Corsica, un rapporto di odio-amore e, in fondo al suo animo, covò sempre la speranza nei suoi confronti e, questo, finché Napoleone fu definitivamente sconfitto. Ma di queste cose ne ho già scritto a proposito dell'Eroica e dunque ad essa rimando

Affermare poi, come fa Buscaroli, che la terza versione del Fidelio sia da intendere in quel clima di restaurazione sancita dal Congresso di Vienna è secondo me fuorviante. Beethoven fu contro, come ho già detto, ogni tirannia e se la fine di quella napoleonica non poté che essere da lui salutata positivamente, fu però anche perfettamente consapevole che la restaurazione in atto era l’altra faccia della stessa medaglia. Da questa considerazione - e da altri motivi più strettamente personali - iniziò proprio quel periodo di grande silenzio che coincise con la fine del “periodo eroico”. Quel silenzio come ben sappiamo, sfociò poi in seguito nel meraviglioso e miracoloso “terzo stile” che Beethoven in una sorta di “rinascita” a nuova vita compositiva dopo aver vissuto il periodo più sofferto sul piano personale, caratterizzò con una – quasi - assoluta indifferenza verso ogni critica proveniente dall'esterno, così producendo quei massimi capolavori di musica,di elevazione visionaria e, sopratutto -non mi stancherò mai di ripeterlo, tanto è lo stupore che si prova di fronte ad essi - di sorprendente e inaudita valenza avveniristica.

Immagino l'obiezione che qualcuno potrebbe farmi: se è come sostieni, come si spiegano allora quelle musiche di stampo chiaramente celebrativo del potere asburgico che Beethoven compose fra il 1814 e il 1815? Non sono forse esse invece la chiara prova dei sentimenti reali del compositore di Bonn? La mia risposta è che queste opere, fra l’altro non particolarmente significative dal punto di vista strettamente musicale, furono dettate dalla prioritaria e unica esigenza di guadagnare soldi; esigenza che in quel periodo per lui fu veramente di carattere vitale, visto che quelli che erano stati i suoi maggiori mecenati e sostenitori – per un motivo o per un altro – erano venuti meno. E dunque, purtroppo, come accade spesso a tanti grandi, anche Beethoven fu costretto per sopravvivere, a venire a patti con il potere costituito.

Ma una nuova alternativa si profilò all’orizzonte ai regimi tirannici e questa fu il Regno Unito. L’interesse da parte di Beethoven verso quel Pese fu già consistente quando il duca di Wellington sottrasse al regime napoleonico la penisola iberica. Fra l’agosto e il settembre 1813 il compositore compose, dedicandola al principe reggente dell’Inghilterra, il futuro Giorgio IV, la “Wellingtons Sieg” Opus 91 e, infine in quegli anni Beethoven armonizzò tanti canti popolari provenienti da quell’area geografica. Ben presto si rese conto che all’interno della società politica di quella nazione ci fu qualcosa di diverso rispetto alle tirannie del resto d’Europa, essa infatti fu, prima fra tutte, governata da un sistema parlamentare. Durante il regno di Giorgio IV dal 1820 al 1830 si ebbe poi una svolta liberale. L’emancipazione civile e politica dei cattolici fu infatti seguita dalla libera associazione degli operai che si riunirono nelle prime Trade Union e, se Beethoven non fosse scomparso, avrebbe potuto assistere già con il successore Guglielmo IV, alla riforma del sistema elettorale che allargò il suffragio alla media borghesia e sancì la definitiva affermazione del regime parlamentare. Ma lascio parlare ancora una volta Luigi Magnani: « (…) L’Inghilterra non fu per Beethoven la terra dei sogni, l’ultima Thule, ma il paese in cui i suoi ideali politici, le sue aspirazioni sociali avevano trovato concreta, storica realtà; (…)Su di un foglio d’album egli aveva allora scritto, ad affermare il credo a cui rimarrà fedele tutta la vita: “Fare il bene che si può, amare sopra ogni cosa la libertà, mai rinnegare il vero, neppure dinanzi al trono” (…) A disagio nella Vienna di Metternich, tutta corte, sbirri e burocrati, ostile ad un governo reazionario che mirava soffocare negli animi persino lo spontaneo anelito dell’unità tedesca, Beethoven non nasconde la sua ammirazione per l’Inghilterra che aveva saputo conciliare la coscienza individuale con l’aspirazione sopranazionale, trovato equilibrio e armonia tra gli ideali politici ed umani. Essa infatti brillava nel cielo delle speranze liberali da quando, per la saggezza dei suoi reggitori, espressione di una manifesta volontà popolare, non solo si astenne dal partecipare alla Santa Alleanza ma, ricusando l’ufficio di guardiana della Restaurazione e di protettrice dell’assolutismo, prese ad incoraggiare i moti costituzionali e d’indipendenza nazionale, sostenendoli talora con la forza come quando, durante il governo di Canning, aveva inviato appoggio militare alla Grecia in rivolta contro la dominazione turca. (…) »

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Sarò compositore mah....

L'unica opera per il teatro lirico composta da Beethoven è il Singspiel “Leonore - Fidelio”, opera che, fin dalla sua genesi, ebbe una ricezione assai controversa. Oggi se questa controversia all'estero è stata completamente superata, altrettanto non si può dire in Italia, dove i teatri lirici, dominati dai sostenitori del bel canto che con pregiudizi duri a morire, vedono in Beethoven un compositore che non ha mai saputo trattare con le voci, pregiudizio solo in parte accettabile e che fortunatamente, negli ultimi anni, da parte di esperti musicologi e di voce è stato ricondotto nella sua giusta analisi.

 

Dal mio punto di vista o uno sa trattare le voci o non le sa trattare; chiunque può dire e sostenere quello che gli pare ma la realtà è facilmente apprendibile dalla partitura.

 

Chiaramente (e ovviamente), il saper trattare la voce non basta per scrivere una buona composizione come viceversa, uno può essere bravissimo a trattare le voci e poi la musica nel suo complesso può non sapere di nulla.

 

Per cui il giudizio deve tener conto di fattori che vanno anche ad interessare l’eseguibilità del brano e quindi alla possibilità che l’opera stessa venga realizzata, visto che nel caso specifico si parla di un brano scritto per organici tradizionali.

 

E fino adesso non ho fatto cenno a Beethoven e il Fidelio, nel senso che a priori trovo sbagliato stabilire il valore di un' opera in base ad un solo fattore, forse pure secondario nel senso che è stata realizzata ... per cui il brano è eseguibile.

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eh, l'u.o.a.s. a volte torna nei miei pensieri, ma la pigrizia ha sempre la meglio :)

sul Fidelio non saprei cosa dire di sensato... l'ho visto, mai in teatro ma sempre in DVD, non posso dire di averlo mai studiato (né da ascoltatore né da cantante). Ci sono cose che ho apprezzato e cose che non capito, di certo è una partitura da studiare, che è un po' come dire che non è scritta per il loggione... ancora di più, quel periodo lì (inizio '800-fine '700) per quanto riguarda il teatro d'opera è tutt'ora in un caos concertistico-musicologico, diciamo. Ci sono molti studi, molti autori, e praticamente NESSUN interesse da parte dei teatri. Cherubini, Cimarosa, Salieri, Spontini, nei teatri ormai non si vedono più, per non parlare della pletora di compositori francesi, tedeschi e austriaci tipo Mehul, von Dittersdorf, Gretry, tutti personaggi che hanno contribuito molto allo sviluppo di un gusto operistico che, personalmente, non conosco fino in fondo. Ecco, per me quasi tutti questi qui sono solo nomi. A istinto direi che Fidelio mi è incomprensibile fintanto che non mi metterò ad ascoltare un po' d questo e un po' di quello

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Grazie Daniele per i 2 papiri :D

 

Grazie a te! E allora ecco il terzo papiro, se proprio avete voglia di leggere! :wacko:

 

 

Nella prima scena del primo atto, Giacchino, portinaio della prigione, tenta disperatamente di dichiarare il proprio amore per Marcellina figlia di Rocco capo carceriere. Ella però è innamorata di Fidelio, non sapendo che in realtà questi, è Leonora, vestitasi da uomo per cercare di entrare nella prigione e salvare il marito Florestan che è lì incarcerato per motivi politici. Una volta rimasta sola Marcellina canta il suo amore per Fidelio:

 

Se solo fossi a te riunita

e mio sposo chiamarti potessi!

Certo una ragazza non ha il diritto

di confessare più di metà dei suoi pensieri.

Ma quando non dovrò arrossire

per un bacio ardente,

quando al mondo c’importunerà

- già la speranza mi riempie il cuore

di una gioia inesprimibile –

come sarò felice!

Nella dolce pace familiare

ogni giorno mi risveglio.

Ci salutiamo con tenerezza, l’attività scaccia le preoccupazioni.

E’ finito il lavoro,

una soave notte ci attende

e ci fa obliare le pene.

Già la speranza mi riempie il cuore

di una gioia inesprimibile,

sarò felice, sarò felice!

 

E' per me un testo formidabile, proprio perché concepito ad inizio Ottocento: La Donna è vista non solo come moglie, ma come persona che al pari dell'uomo, desidera e afferma la sua voglia d'amore, tenerezza, baci e soavi notti perché questo, solo questo, può essere il presupposto per la felicità fra due innamorati.

Dopo una conversazione dove Rocco, auspica che Fidelio sposi la sua Marcellina segue un'Aria, dove il capo carceriere afferma che il segreto della felicità è certamente dato dall'Amore ma, ben poca cosa sarebbe:

 

Se non si ha dell'oro da parte

(...)

La felicità va pagata come un servo,

è una cosa bellissima l’oro!”

 

Leonora-Fidelio non è d’accordo e risponde:

 

Tutto ciò va bene per voi, maestro Rocco, ma io sostengo che l’unione di due cuori che battono all’unisono è fonte della vera felicità.

 

Leonora-Fidelio ne approfitta per chiedere del prigioniero che si trova in un sotterraneo segreto e dove, solo a Rocco è consentito entrare. Il carceriere afferma che lì esso si trova da più di due anni. Leonora sussultando afferma:

 

Due anni dite? Deve avere commesso un gravissimo delitto!.

 

Rocco risponde:

 

Oppure deve avere nemici molto potenti, il che è la stessa cosa.

 

Dura accusa questa verso le tirannie, dove in galera si finisce non perché malfattori ma perché portatori di idee contrarie al potere dato.

Rocco dice:

 

Bene figliolo, bene

sii sempre coraggioso

e avrai successo. (…)

 

Leonora-Fidelio risponde:

 

Per una grande ricompensa

l’amore può ben sopportare

anche grandi sofferenze.

 

Rocco afferma:

 

Costruirai, è certo la tua felicità.

 

Leonora-Fidelio risponde:

 

Ho fede in Dio e nella giustizia.

 

Marcellina conclude:

 

Ma guardami negli occhi!

Neanche la potenza dell’amore è piccola

 

Dio, giustizia e amore: questi sono dunque i punti cardine, imprescindibili per Beethoven per raggiungere la felicità e la gioia.

Alla fine di questa scena risuona una marcia che annuncia l'arrivo di Pizarro e dei suoi sgherri, il governatore despota che ha fatto incarcerare Florestan

Pizarro appena entrato legge una lettera che gli è stata spedita da una sua spia e che gli annuncia l'arrivo del Ministro il quale verrà a fare un sopralluogo nella prigione perché gli è giunta voce che in quel posto vengono fatti da parte del governatore dei veri e propri soprusi sui prigionieri. Terrorizzato Pizarro pensa a Florestan che il ministro crede morto e che invece egli ha fatto mettere in catene perché intendeva denunciarlo per tutte le sue malefatte proprio al ministro: Nell'aria che segue, caratterizzata da una musica che annuncia la sua minaccia, egli afferma la sua intenzione di assassinare Florestan.

Dopo avere incaricato una guardia affinché tenga d'occhio la strada di Siviglia e di dare immediatamente l'allarme se vede arrivare qualcuno, Pizarro si rivolge a Rocco e promettendogli di farlo diventare ricco, lo incarica di uccidere Florestan. Rocco, terrorizzato si rifiuta e allora, il governatore molto irritato con lui, gli chiede di preparare la fossa, dopo di che sarà lui ad uccidere l'odiato nemico. Leonore, però ascolta nascosta tutta la loro conversazione.

Essi usciti, Leonore esce allo scoperto e canta un recitativo fugato, seguito da una dolcissima Aria d'amore, annunciata e accompagnata da magnifici corni, verso il suo Florestan dove per la prima volta si fa riferimento alla luce come fonte di liberazione e di vittoria dell'amore:

 

Per me invece sorge l'arcobaleno

lassù al di sopra delle nuvole nere

e la sua vista mi rasserena.

In esso è riflesso il tempo antico

e il mio sangue scorre di nuovo impetuoso.

Vieni, speranza, non lasciare svanire

l'ultima stella che rischiari la mia pena.

Vieni illuminata meta

anche se è ancora tanto lontana:

l'amore la raggiungerà.

Seguo l'impulso del cuore

 

Leonore – Fidelio convince Rocco ad aprire ai prigionieri e lasciarli un po' alla luce e all'aria. Il celeberrimo e bellissimo Coro dei prigionieri introduce il tema del contrasto della luce che si identifica con la vita e la libertà, e delle tenebre che si identificano con la prigione e la tirannia. I prigionieri escono infatti dalle loro buie celle e vedendo la luce del sole intonano:

 

Oh, che piacere all’aria libera

poter respirare senza fatica;

solo qui, solo qui è la vita,

la prigione è come una tomba.

Ci sostiene la fiducia

la fiducia nella misericordia divina;

la speranza mi sussurra;

avremo libertà e riposo.

Oh cielo, la salvezza, che gioia!

Oh libertà, ritorni a noi?

 

Compare qui un’altra costante del pensiero beethoveniano: la fiducia e l’ottimismo che aiutano l’uomo anche di fronte alle più grandi avversità e ingiustizie della vita.

Rocco annuncia l'intenzione di Pizarro di uccidere Florestan a Leonore, la quale disperatamente, cerca di convincerlo a non andare a scavare la fossa. Intanto però, il tiranno si è accorto della uscita dei prigionieri e, molto adirato se la prende con Rocco:

Siamo al termine del primo atto, Pizarro impone il rientro dei prigionieri e a Rocco di affrettarsi a scavare la fossa di Florestan. Costretti a rientrare i prigionieri cantano:

 

Addio, dolce luce del sole

fra un attimo non ti vedremo più:

già la notte è pronta a ingoiarci

una notte lunga senza mattino.

 

Marcellina osservando i prigionieri sussurra:

 

Come si affrettavano verso la luce

e ora tristemente l’abbandonano.

 

Mentre Leonore si chiede:

 

Non c'è punizione per il delitto?

 

Entriamo ora nella parte più drammatica e più bella dell’opera: il secondo atto. Siamo nell’interno della buia cella di Florestan la cui “oscurità è rotta dal chiarore di una lampada”. La simbologia della contrapposizione fra le tenebre – il male – e la luce - il bene - trova qui la sua massima espressione di drammatica bellezza musicale.

Nelle parole declamate da Florestan c'è l’accettazione di quello che il Divino gli ha destinato, confortato in questo però, dalla consapevolezza che comunque sia, egli ha svolto il suo dovere di uomo libero e onesto. le parole che Beethoven fa cantare a Florestan sono espressione della sua filosofia di vita:

 

Dio mio,che oscurità!

Che silenzio terribile!

Intorno a me il deserto,

nessun altro essere vivente!

Quale tormento!

Giusta è pur la tua volontà

Non mi lamento, oh Dio, decidi tu

Le misure delle mie sofferenze!

Nella primavera della vita la felicità mi ha abbandonato.

Osai dire ad alta voce la verità

e le catene furono la mia ricompensa.

Ma sopporto ogni dolore

e questa misera fine,

confortato dal pensiero

di aver fatto il mio dovere. (…)

 

Subito dopo, con molta emozione, intravvedendo uno spiraglio di luce perché Leonora e Rocco stanno entrando, egli esulta; non si rende conto di cosa stia accadendo e pensa che un Angelo del cielo con il viso di Leonora, sia venuto a portarlo nel “Regno dei cieli”, l'emozione è talmente forte che crolla svenuto.

Leonora e Rocco sono ora scesi nella cella e devono cominciare a scavare la fossa per il carcerato che, nel buio non è possibile riconoscere. Leonora cerca disperatamente di prendere tempo per non aiutare Rocco e, borbottando con se stessa, afferma:

 

Oh tu chiunque sia ti salverò!

Giuro che non ti uccideranno

e che ti libererò dalle catene;

mi fai tanta compassione!

 

Il tutto è accompagnato da una bellissima musica che dà pienamente il senso del momento tragico e dei sentimenti che pervadono i vari personaggi.

Florestan si sveglia e parlando con Rocco apprende che il governatore di quella cella è Don Pizarro:

 

l'uomo di cui osai smascherare i misfatti

 

Leonora comprende ora che si tratta di suo marito e in un terzetto, caratterizzato da una musica dolce e malinconica, cerca di fare leva sui buoni sentimenti di Rocco per portarlo dalla propria parte e per liberare Florestan che è inconsapevole che ella è lì accanto a lui:

 

Il mio cuore mi spinge fra le sue braccia

 

ella mormora allontanandosi e cercando di dominare tutta la sua emozione.

Quella che segue è la scena che sempre mi infonde un'emozione indicibile e che mi commuove fino alle lacrime. Pizarro entra nella prigione e annuncia al suo martire chi egli sia veramente:

 

Pizarro che volevi rovinare

Pizarro che avresti dovuto temere,

è qui per fare la sua vendetta!

 

Mentre tenta di pugnalarlo però, Leonora si frappone fra loro gridando:

 

Uccidi prima sua moglie!

 

Lo stupore che segue è grande ma , subito dopo, Pizarro decide di uccidere entrambi, Leonora estrae una pistola e puntandola contro all'odiato tiranno lo ferma. Ora, qui, con profonda emozione, si sentono i squilli fuori della tromba che annuncia l'arrivo del Ministro. Pizarro fugge. Leonora e Florestan cantano assieme:

 

L'amore e il coraggio uniti ridaranno la libertà

 

Segue un duetto dove i due coniugi manifestano la loro felicità nel ritrovare sé stessi e la libertà ringraziando per questo Dio:

 

Grazie , o Dio, per questa gioia!

Mio marito, mia moglie

sul mio petto.

Sei tu!

Sono io!

O gioia sublime!

Leonora!

Florestan!

 

Scena finale dove la vittoria della luce sulle tenebre è sancita; è l’auspicio di Beethoven che i popoli vengano governati non da tiranni, ma da uomini “illuminati”. Uomini che abbiano come loro fine l’interesse e il bene di tutta la collettività e non i propri interessi personali:

 

Per volontà espressa

del nostro ottimo re,

sono qui venuto, poveri infelici,

a dissipare le fitte tenebre

che ingiustamente vi avvolgono.

non più in ginocchio come schiavi!

lungi da me lo spirito di tirannia!

e’ un fratello che cerca i fratelli

ed è felice se li può aiutare.

 

Rocco, seguito da Leonora e Florestan entrano in scena e mettono al corrente il ministro di tutto quello che è accaduto. Pizarro tenta di giustificarsi ma la condanna è senza appello. Marcellina invece, da parte sua e con tanta delusione, deve prendere atto che il suo amato Fidelio è una donna. Annunciati da una dolcissima e liberatoria melodia dell'oboe e poi del flauto e via via degli archi, tutti intonano:

 

Oh Dio, quale istante!

Dolce, inesprimibile gioia!

Giusto è il tuo giudizio, o Dio.

Tu ci metti alla prova

ma non ci abbandoni!

Chi soave donna acquista

deve al giubil nostro unirsi

Non sarà mai abbastanza lodata

cole che ha salvato il marito

 

Il filosofo Ernst Bloch nel XX esimo secolo, costruì gran parte della sua filosofia sul Fidelio. I suoi testi principali “Spirito dell'utopia” e “Il principio speranza” partono proprio dal suono delle trombe che annunciano l'arrivo del ministro e dal grido di giubilo:

 

O Dio, quale istante!

 

Giubilo che arriva alla sua massima esaltazione mentre Leonora pronuncia l’esaltazione dell’Amore come vero e proprio antidoto contro qualsiasi avversità

 

L’amore ha sorretto i miei sforzi!

Il vero amore non ha paura di nulla!

L’amore mi ha consentito

di liberarti dalle catene.

L’amore mi fa ora cantare:

il mio Florestan è di nuovo con me!

 

 

ps: Ciao FranK, come va? Poi ti rispondo anche a te!

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Sarò compositore mah....

 

 

Dal mio punto di vista o uno sa trattare le voci o non le sa trattare; chiunque può dire e sostenere quello che gli pare ma la realtà è facilmente apprendibile dalla partitura.

 

 

 

Non sono un compositore e tanto meno sono un esperto di voci ma sono convinto di una cosa: un compositore sa se è un esperto di voci o meno e, tanto più, lo sapeva uno come Beethoven.

Se Beethoven decise di comporre anche musiche che ricorrevano alla voce, sbagliando – perché nessuno mette in dubbio che il suo modo di usare le voci fu scorretto – lo fece dunque consapevolmente.

O bella, e allora perché lo fece? Tu mi chiederai!

Beethoven non componeva « per fare brillare i cantanti », ma altrettanto si può dire per gli strumentisti. Friederich Lippman ha, dal mio punto di vista, centrato la questione, ricordando la brutale risposta che Beethoven diede all'amico e grande violista Ignaz Schuppanzigh che, parlando di uno dei suoi ultimi quartetti si lamentò di certi passaggi, definendoli « insuonabili »: «Crede che io pensi al suo misero violino, quando lo Spirito mi parla? ». «Per Beethoven, come per nessun altro compositore prima di lui, (...) la voce umana era semplicemente un mezzo. L'ugola di una Anna Milder aveva per Beethoven, al quale parlava lo Spirito, né più né meno, il medesimo valore del misero violino di Shuppanzigh, Egli qui scriveva né come compositore vocale, né come compositore strumentale, bensì come un Tondichter (poeta dei suoni), cui riuscì, come a nessun altro contemporaneo, di fissare in suoni idee e passioni. »

Due vociomani molto esperti, Enrico Stinchelli e Michele Suozzo – presentatori del programma “La Barcaccia” su Radio tre – che non son certo accusabili di essere teneri verso chicchessia, tempo fa parlando di Beethoven e del suo modo di trattare le voci, hanno detto chiaramente che se è indubbio che da parte del compositore di Bonn ci fu un uso “scorretto” delle voci, il risultato però ottenuto è quello di aver dato vita ad un'opera che è un capolavoro.

Prendiamo il ruolo ad esempio di Leonore che « a causa d'una scrittura che batte con sadica insistenza sull'impervia zona del passaggio di registro (tra l'altro su un tessuto strumentale parecchio folto); che sollecita brucianti fiondate a si naturali subito seguiti da inabissamenti sotto il rigo; che impone lunghi passaggi nel registro centrale in frasi da articolare con particolare nitidezza perché decisive sul versante espressivo è spesso affidata a mezzosoprani provvisti di un buon registro acuto » (Elvio Giudici).

Uno di questi mezzosoprano fu la grandissima Christa Ludwig che così si espresse in merito a quest'opera « Il mio legame con Fidelio è molto profondo. (...) Si tratta di un'opera sui generis, sia perché Beethoven non è un vero operista, sia per il significato profondo di questo capolavoro, un patrimonio dell'intera umanità, che travalica l'ambito puramente musicale. »

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… vedi che alla fine

tempo fa parlando di Beethoven e del suo modo di trattare le voci, hanno detto chiaramente che se è indubbio che da parte del compositore di Bonn ci fu un uso “scorretto” delle voci, il risultato però ottenuto è quello di aver dato vita ad un'opera che è un capolavoro.

 

Comunque sia penso venga comodo questo spunto di Carlos che potete leggere integralmente qui

 

http://www.pianoconc...ne/page__st__20

 

A Stravinski, molti anni dopo che aveva scritto la Sagra, qualcuno disse «Ha visto, Maestro? Finalmente i fagottisti adesso riescono a eseguire perfettamente quel difficilissimo solo, nonostante il registro acuto!» e Stravinski rispose «Se lo avessi mai immaginato avrei scritto quel solo una quinta sopra!» Capito il senso? Lui voleva che suonasse male e aveva scritto il solo in un registro che, a quell'epoca, era quasi tabù per i fagottisti (immaginate cosa deve essere uscito alla prima esecuzione: lo credo bene che hanno lanciato le sedie!).

 

E’ un esempio in ambito strumentale, ma come dicevo il valore di una composizione può trascendere dal singolo fattore.

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qui spezzo una lancia a favore di Beethoven: non esistono modi corretti e modi scorretti di usare le voci. Se ci riesco, soprattutto se ho il tempo, analizzo un'aria o comunque un pezzo vocale dal Fidelio per tirar fuori gli stilemi di scrittura vocale e ne possiamo riparlare nello specifico. Il punto principale della questione, però, è che il Fidelio, come tutte le pagine vocali famose di Beethoven, è "pesante", faticoso da reggere, ovvero tendente all'acuto, pieno di rinforzi orchestrali, lontano dalla tipica struttura "italiana" canto-accompagnamento e, spesso, ritmicamente complesso. Sono tutte caratteristiche lontane dalla vocalità di quel periodo, molto più vicine, invece, a quella che diventerà LA vocalità tedesca. Non a caso, le grandi Fidelio-Leonore sono state grandi cantanti wagneriane e straussiane http://en.wikipedia.org/wiki/Fidelio_discography persone come Birgit Nillson, Martha Moedl, Hildegard Behrens, gente con una voce grossa "così", per un'opera di un periodo in cui la vocalità era ancora tardo-barocca, neppure pre-romantica...

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qui spezzo una lancia a favore di Beethoven: non esistono modi corretti e modi scorretti di usare le voci.

 

Oddìo, parliamone... magari non riguardo a Beethoven, del quale si può dire tuttavia che, specialmente in ambito corale, spingesse le voci in maniera a volte esagerata verso l'acuto. Non mi esprimo su Fidelio, che conosco poco, ma basta dare un'occhiata alla Nona Sinfonia e alla cantata "Meeresstille und glückliche Fahrt" per averne un esempio: entrambi i pezzi in re maggiore, entrambi i pezzi coi soprani sempre irrimediabilmente impiccati su la sovracuti e i bassi impiccati su re acuti (tant'è che fanno fatica anche i cori odierni, non oso pensare alle urla all'epoca di Ludovico). Comunque: la voce è uno strumento e se c'è un modo scorretto di usare il violino c'è anche un modo scorretto di usare la voce...

 

L'esempio del suono acuto della Sagra, riportato da Frank, appartiene all'ambito "effetti strumentali" e non credo possa essere d'aiuto per individuare scopi e ragioni di certa scrittura vocale impervia di Beethoven, anche perché per risolvere un problema tecnico strumentale si può aspettare sia il miglioramento della tecnica dello strumento, sia il miglioramento della tecnica dello strumentista, mentre per il miglioramento di un problema tecnico vocale ci si può solo affidare al miglioramento della tecnica del cantante, perchè lo strumento, ahinoi, con tutti i suoi limiti, negli ultimi duecento anni non è cambiato granché... ;)

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non sono d'accordo, Carlos. Il punto è che per ogni "ambito" (intendendo con ambito quella parte precisa di estensione che viene battuta maggiormente in un brano) ci può essere un tipo vocale preciso, e ci possono essere tecniche e stili di canto. Le opere corali di Beethoven (e di quasi tutti i compositori romantici di area germanica) sono pesanti per una vocalità italiana perché in Italia sono più diffusi soprani e tenori lirici, piuttosto che soprani e tenori leggeri (o spinti). La tecnica si adegua alla musica coeva e la musica riflette la tecnica coeva. O, almeno, nella maggior parte delle situazioni è così. Forse questo non riguarda Beethoven, che non so se ha scritto Fidelio per cantanti precisi. Ed anche qui bisognerebbe confrontare la scrittura vocale beethoveniana con le altre scritture vocali coeve. Giorni fa', però, ho cantato pezzi di Brahms per coro che erano pesanti tanto quanto, solo più brevi. E qui, pur mettendo le mani avanti e dicendo che non sono un esperto di prassi vocale storica, penso che si debba mettere in campo il buon senso: tutt'oggi i cori tedeschi hanno una pasta timbrica molto chiara e tagliente. Questo corrisponde ad una tecnica, o ad una serie di pensieri tecnici, che sono lontani dalla tradizione dello studio vocale "italiano", basato sull'uniformità, la morbidezza e la ricerca di colore scuro. I soprani mozartiani sono quasi tutti o mezzi soprani con gli acuti o soprani leggeri; i tenori sono o leggeri o anticipano l'Heldentenor, ovvero un baritono molto molto spinto. Tutte le volte in cui ho cantato la nona mi sono sempre stupito di una cosa: non è acuta in senso assoluto, è semplicemente scritta al contrario, cioè, molte frasi iniziano in acuto e finiscono in grave, o hanno gli acuti comunque non corrispondenti al climax tipico del vocalizzo. Seguire il vocalizzo è per noi sinonimo di "musica scritta bene per le voci", ma io penso solo che sia una conseguenza dello status privilegiato del cantante nella nostra cultura musicale. Una cosa sono i repertori non tonali, una cosa è Beethoven. Cioè, Beethoven non ti mette di fronte a problemi vocali insormontabili... è solo "strumentale" più che "vocale", ma come lo sono stati prima e dopo di lui molti altri.

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Non sono d'accordo, Carlos. (...)

 

Mah, a dire il vero nemmeno io... Io non ho parlato di cori italiani e di vocalità italiana, quindi non ho fatto nessun riferimento a ciò di cui parli tu. Ma anche se fosse, ascoltare lo stesso coro (tedesco, se ti fa piacere) cantare il Requiem Tedesco di Brahms e la Nona di Beethoven spiega abbastanza bene (e meglio di mille parole) quale dei due pezzi sia scritto meglio per le voci. Il ogni caso, si può giustificare qualunque cosa, ma direi che il fatto che Beethoven non si sia dedicato alla voce più di tanto la dica abbastanza lunga, per lo meno sul suo interesse in merito. Ho cantato moltissima musica da camera vocale di Brahms (solo per fare riferimento al romanticismo tedesco) e, lì, davvero non c'è alcun dubbio sul fatto che JB conoscesse la voce, la collocazione dei registri e la scrittura vocale più adeguata. Lo stesso non si può dire di Beethoven, ferma restando la mia venerazione per lui, sia ben chiaro. Non so quali pezzi corali di Brahms abbia cantato tu, ma quelli che ho cantato io, sì, sono "pesanti" (anche perché c'è molto contrappunto, mi riferisco ai mottetti) ma non certo nello stesso modo. In ultimo, tu dici che la Nona "non è acuta"... eh, parli bene tu! :D Tu sei un tenore e le parti centrali sono le meno vessate dalla scrittura beethoveniana (nessun mezzosoprano che canta la Nona si lamenterà mai): chiedi cosa ne pensano soprani e bassi, poi ne parliamo! ;)

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non è più acuta di molte opere liriche. Finora le due cose più pesanti che ho cantato nella mia vita sono state I Pagliacci (nello specifico, il coro d'entrata, che è assolutamente insensato, come scrittura vocale) e Turandot, che è pesantissima quanto due none. Mi hanno parlato in maniera delirante della missa solemnis, ma mi manca... ma la questione è che se il repertorio ti richiede certe cose, allora il musicista si forma per dare quelle cose lì. Preferisco pensare che esistano parti difficili o parti scritte per voci diverse dalla mia. Ed il problema, dal mio punto di vista, non sta negli acuti.

Comunque, abbiamo cantato alla Palazzina Liberty a Milano i quattro quartetti op. 92. Imparagonabili alla nona, è vero. Mi pare di aver cantato anni fa' dei mottetti di Brahms, me li ricordo come difficili ma non mi ricordo quali fossero...

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L'esempio del suono acuto della Sagra, riportato da Frank, appartiene all'ambito "effetti strumentali" e non credo possa essere d'aiuto per individuare scopi e ragioni di certa scrittura vocale impervia di Beethoven

 

Certo, era solo per dire che a volte delle scelte possono apparire irrazionali, ma poi nella mente dell'artista hanno una perfetta collocazione.

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Cari Carlos e Thallo,

 

seguo "in silenzio" questa vostra bella discussione (interessantissima per me).

Sono stato colpito da un'affermazione di Carlos. Felicemente colpito. Ossia il fatto che tu affermi, in più punti, che il Finale della Nona tiri - vocalmente parlando - verso l'acuto.

Anch'io ho avuto questa impressione. Ma non ho mai osato farne una certezza perchè (a differenza di te) sono piùttosto ignorante per quanto riguarda la vocalità dal'800 in poi.

 

Oso però un'impressione personale: una suggestione che mi viene dall'ascolto della Nona, e che ti propongo come funzione - ragione e scopo - di certa scrittura vocale impervia di Beethoven.

 

Si tratta della 'fatica della Gioia'.

È la fatica di conservare uno spirito gioioso pur all'interno della fatica del vivere, della quotidianità con tutto il suo trambiusto e la sua frammentarietà

(anche il Finale della Nona è una gioiosa accozzaglia di stili, un polittico sonoro. Un Finale che è come la vita . . .«si che dal fatto il dir non sia diverso»).

 

Poca grazia nel trattamento delle voci!?. . . Altro che 'bel canto' . . . qui si deve sentire la fatica: la 'fatica della gioia'.

Affatica la voce cantare la 'gioia' così come ci si consuma vivendo la vita!

 

Che ne dici? . . . . potrebbe essere?

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bisognerebbe cercare l'inverso: qualcuno a memoria conosce pezzi vocali beethoveniani non faticosi? No, perché se sono tutti così allora è sintomo di un pensiero vocale (per quanto... anti-fisiologico). A me la nona è sempre sembrata faticosa a prescindere dalla gioia...

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Sono stato colpito da un'affermazione di Carlos. Felicemente colpito. Ossia il fatto che tu affermi, in più punti, che il Finale della Nona tiri - vocalmente parlando - verso l'acuto. (...)

 

Oso però un'impressione personale: una suggestione che mi viene dall'ascolto della Nona, e che ti propongo come funzione - ragione e scopo - di certa scrittura vocale impervia di Beethoven.

 

Si tratta della 'fatica della Gioia'.

È la fatica di conservare uno spirito gioioso pur all'interno della fatica del vivere (...)

Che ne dici? . . . . potrebbe essere?

 

La tua spiegazione è molto interessante di per sé, ma onestamente credo poco applicabile al caso specifico, per almeno due motivi, ovvero:

- il primo, come dice Thallo, è che Beethoven scrive sempre in maniera fisiologicamente faticosa per la voce, a prescindere dal testo che viene cantato, quindi non riguarda, la faticosità, il superare le difficoltà della vita per mantenersi gioiosi;

- il secondo, più importante ancora, è un motivo tecnico e storico: se Beethoven usasse le voci nel senso che tu dici se ne dovrebbe ricavare che sta non solo anticipando il romanticismo, ma addirittura sta anticipando il verismo, cosa che non è in alcun modo ed è anzi (il verismo, intendo) ben lungi dall'arrivare. Intendo dire che "esprimere la fatica" e "scrivere una cosa faticosa" non sono la stessa cosa, spero di riuscire a spiegarmi.

 

Il Finale della Nona è faticoso perché la scrittura è maldestra: i soprani sono molto spesso sopra al rigo e a cavallo di sol e la sovracuti, magari costretti a cantare piano e i bassbaritoni, anche loro, molto spesso sopra al rigo, su re e mi. Ma, a dire il vero, lo sapeva anche Beethoven che esagerava: all'ingresso del Basso solista ("O Freunde, nich diese töne!") c'è già un "ossia" e al mi della parola "Freunde" è previsto si possa sostituire un più comodo do diesis. La stessa cosa vale per la parte del Tenore, subito prima della lettera K ("freudig wie ein Held zum Siegen."), dove il tenore è forzato a toccare ripetutamente il si bemolle acuto; anche lì è previsto un "ossia" (ed entrambi sono autografi).

 

Il ché aprirebbe ed amplierebbe il dibattito, ovvero: se Beethoven sapeva di scrivere complicato o, quanto meno, scomodo, vuol dire che non era mancanza di conoscenza della voce e che magari cercava di fare con le voci quello che faceva con gli strumenti, cioè spostare in avanti i limiti strumentali (come faranno, dopo di lui, sempre più spesso i compositori romantici). Non lo so, onestamente, ma resto convinto che il discorso non possa essere uguale per lo strumento (quale che sia) e per la voce, perché, come dicevo, lo "strumento voce" non può essere meccanicamente perfezionato come invece è possibile fare con gli altri strumenti, quindi può migliorare la tecnica, ma sarà applicata ad uno strumento sostanzialmente simile. Un po' come se si chiedesse a Kissin di suonare la Sonata di Liszt su un fortepiano del 1800. E la riprova è che certe parti vocali restano, a tutt'oggi, decisamente impervie, ma sorrette da orchestre che si "mangiano" la Nona con una disinvoltura impensabile solo un secolo fa. È decisamente più "comodo" cantare il Requiem di Verdi e sarei pronto a scommettere che qualsiasi corista, italiano o tedesco o... come volete voi, affermerebbe la stessa cosa.

 

Ergo, a mio parere, come la si gira la si gira, Beethoven con la voce aveva dei limiti, mi sia perdonata questa affermazione (!!!).

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Ciao a Tutti.

 

Come sempre, mi tengo ben lontano da dettagliate descrizioni dell' opera, che altri fanno eccellentemente bene. Ho però un primo contributo: il testo che scrisse Bouilly (edito nel settimo anno della Rivoluzione) e che fu rappresentato il 1° ventoso del sesto anno della Rivoluzione. Potete trovare questo raro testo qua: http://www.lvbeethov...Online.html#009 il peso è di circa 35 Mega. Carino; si può vedere la diversa dinamica dell' azione e come viene modificata dal traduttore nel 1805, in ottemperanza alle disposizioni della censura Austriaca. Dovrei trovare anche questo testo del 05, così lo aggiungo al sito. Per vedere le varie modificazioni (spesso peggiorative) potete trovare i prospetti qui: http://www.lvbeethov...re-Fidelio.html

 

Infine, i molto istruiti musicologi che seguono il post, potranno fare un parallelo fra la musica di Gaveaux, Beethoven e Ferdinando Päer. Per reperire le parti o i cd del Ludwig, non c' è problema, si trova tutto facilmente, anche le versioni intermedie ( una certa difficoltà in più per le arie modificate Hess 111 - 114, che non aggiungono un bel tubo a tutta la vicenda) Per Päer, è uscito un doppio cd (decente) della naxos; ma assolutamente consigliato questo della DECCA: http://www.amazon.co...a/dp/B00B2M7DHS Io lo avevo in tre LP che ho consumato.... Trovabile anche la partitura. Per Gaveaux il discorso è diverso: come tutti i grandi musici, tende ad essere dimenticato; ma ne esiste una versione in LP, degli anni 60....

 

Ora vi saluto e scartabello nei libri; il libretto del 1805 del Sonnleithner devo averlo da qualche parte......(senza utilizzare quelli orribili dentro i cd!) Questo testo è importante, anche perché è il testo pre-motosega del Treitschke, che avrebbe potuto fare per questo motivo il boscaiolo, anziché il poeta.

 

A---------------------------------

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La domanda può essere dunque così riassunta: Beethoven scrisse le sue opere vocali in quella maniera perché « con la voce aveva dei limiti » - come asserisce Carlos - o perché il suo “Spirito” - come asserì Lippman, così gli dettò?

A parte il fatto che solo lui potrebbe, ovviamente, darci una risposta certa in un senso o nell'altro, da parte mia continuo a pensare, dopo avervi letto e riconoscendo a Claudio – a cui mi sento in questo caso più vicino nel pensiero – e a Carlos, di dire cose entrambi giustissime. Da parte mia continuo pero a pensare che un compositore della grandezza di Beethoven – ma farebbe lo stesso seppur inferiore – non potesse non essere consapevole di quello che scriveva e, soprattutto, di come lo scriveva.

Beethoven – a differenza di Bramhs – si rapportò con la musica e con tutte le sue regole fino a quel punto dettate, in maniera rivoluzionaria e questo, - a parte il lied su cui ci sarebbe da fare un'altra lunga e interessante discussione – lasciando una sua impronta devastante: è un dato di fatto, no?

Se analizziamo la sua musica con orchestra e voci umane, non dobbiamo dimenticare che i suoi primi lavori risalgono al 1790, quando ancora a Bonn, compose prima la “Cantata per la morte dell'imperatore Giuseppe II WoO 87” - opera che sarebbe giusto eseguire molto di più di quello che oggi viene fatto e in cui, già sono in embrione, molti dei futuri pezzi di “Fidelio” – e la seconda la “Cantata per l'ascesa al trono dell'imperatore Leopoldo II WoO 88”.

Entrambe queste due cantate – e soprattutto la prima – non furono mai eseguite perché ritenute impervie per la voce, segno dunque che, il giovane Beethoven, già intendeva la composizione con parti vocali in una certa maniera.

Ma se nel 1790 si può supporre che fosse un suo deficit, altrettanto pare un po' incredibile nel 1805 e, ancor di più, quando compose la “Missa solemnis” e la “Nona sinfonia”: questo suo insistere fa più credere ad una scelta dettata dal suo “Spirito”.

Non dimentichiamo che fra il 1798 e il 1801, Beethoven prese lezioni proprio in merito all'uso della voce presso Salieri, componendo vari canti a cappella e altre cose. Da notare che dei “Canti a cappella WoO 99”, esistono molto spesso due versioni: una scritta da Beethoven e l'altra corretta da Salieri, il quale spesso si lamentò che il compositore venuto da Bonn, proprio in merito a ciò, non capiva nulla.

E allora, ancora una volta la domanda che mi pongo e che vi pongo: è possibile che un compositore del calibro di un Beethoven, nonostante le insistite lezioni di un Salieri, continuasse a non capir nulla o, non fosse piuttosto una sua impuntatura, una sua scelta di stile?

E ancora vi domando: “Fidelio”, “Missa Solemnis”, finale della Nona – solo per nominare i massimi capolavori beethoveniani in questi campi – se oggi sono considerati in una certa maniera, non può anche essere perché Beethoven li ha concepiti così? Se Beethoven avesse composto “bene “ per le voci, sarebbero stati così importanti e grandi?

Voglio finire, come è mio uso, riportando il pensiero di chi certamente più di me è legittimato a dare giudizi in merito e con cui mi sento in massima sintonia a tal merito: Giovanni Carli Ballola « L'osservazione che, nell'unica opera di Beethoven, i valori orchestrali superano di gran lunga quelli vocali condizionandoli e subordinandoli nel quadro di una dimensione schiettamente strumentale, potrebbe sembrare ovvia, se non ne deducessimo che proprio a questo spostamento del centro di gravità musicale e drammatico, l'opera deve la sua forza e il suo carattere eccezionalmente “moderno”. »

Ecco, questo è il punto! Ancora una volta in Beethoven, il suo Spirito, come sempre, parla verso il futuro: è la ridefinizione del rapporto fra musica e parola a importare a Beethoven e non il resto di cui non gli importava molto e a far sì che egli lo rendesse “moderno” prima della “modernità”.

Eppoi diciamocelo una benedetta volta: saranno anche scritte male per la voce ma, pur tuttavia, sono eseguibili visto che, comunque sia, sono tutte abbondantemente in repertorio e, sarebbe veramente un grosso peccato, dover rinunciare a tanta simile grandezza.

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Carlos . . . sono d'accordo sul fatto che "esprimere la fatica" e "scrivere una cosa faticosa" non sono la stessa cosa. Non necessariamente.

Lungi da me poi l'idea che Beethoven abbia agito intenzionalmente in questo senso (espediente > effetto). Lungi da me quest'idea.

 

La fatica, lo sforzo, la tensione di un coro - di un'Umanità - che si vorrebbe migliore, è una mia impressione ascoltando il Finale.

La fatica delle voci è un'altra cosa (successiva) che personalmente constato solo con la partitura sotto gli occhi.

Di qui il mio sospetto: il mio collegare le due cose. E credo che lo stesso Beethoven ci farebbe una risata.

 

Ma il mio sospetto rimane.

Estendiamo pure, come propone Thallo, il quesito a tutta l'opera vocale Beethoveniana. è tutta faticosa. Anche le due belle Cantate giovanili ricordate da Daniele.

 

Ma la dimensione della fatica, della tensione - dello streben - non soggiace un po' a tutta l'opera beethoveniana? (pianisti, violinisti . . . c'è qualcuno che se la passi comoda con Beethoven!?)

e la Nona Sinfonia non è forse il vertice di una vita segnata da tensioni?

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