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Piano Concerto - Forum pianoforte

RedScharlach

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Tutto postato da RedScharlach

  1. Un esempio di "metronomo doppio" in riferimento a quanto detto nel post
  2. Un esempio di "metronomo doppio" in riferimento a quanto detto nel post
  3. Non so se questa discussione è già stata proposta. Ho fatto una ricerca sul forum ma non ho trovato nulla ... se ripeto qualcosa di già detto, mi perdonerete! Volevo segnalare questa teoria del "metronomo doppio" proposta qui da Wim Winters. Mi direte che è storia vecchia: qui però abbiamo la possibilità di ascoltare numerosi esempi, da Mozart e Beethoven a Chopin e oltre. Giro qualche esempio anche nelle sezioni dedicate a questi compositori. https://www.youtube.com/watch?v=6EgMPh_l1BI
  4. Un principio simile si potrebbe trovare in Beat Furrer
  5. Sì ... Mi rendo però conto di essere stato riduttivo: sembra che il filtro sia esempio per eccellenza di codice, ma non è così. Il filtro, essendo selettivo, per sua natura "riduce" il materiale, lo "depura". Può quindi avere una sua funzione. Ma ci sono molte altre possibilità per "aumentare" il materiale (in Questo si parla di "far lievitare" il materiale): bisogna ovviamente formulare dei codici adatti. Potenzialmente potrebbe essere una figura. Per quale motivo uso il condizionale? Perché la figura è necessariamente determinata dal contesto. Se il contesto (ciò che precede e segue) afferma in qualche modo (in qualsiasi modo: per analogia uguaglianza discontinuità contrasto affinità...) l'identità di ciò che si è determinato mediante i codici, allora sì, ciò che si è determinato è una figura. Come avviene nell'ultimo esempio che hai postato. Esempio che (per quanto ci può interessare una affinità stilistica) non è molto "alla Donatoni", in quanto fin troppo articolato. Almeno per un inizio brano probabilmente non funzionerebbe. Ma (ribadisco) faccio questo rilievo solo se ci proponiamo qualcosa "alla Donatoni".
  6. Dimenticavo un aspetto fondamentale. Dicevo che il risultato dell'applicazione dei codici non implica l'alea; al contrario, può determinare una certa omogeneità. In realtà, a partire dagli anni Settanta, l'applicazione dei codici in Donatoni comporta l'emersione e la definizione della figura. I codici possono selezionare altezze, intervalli, ritmi, direzioni melodiche: vengono quindi adottati in funzione della loro capacità di determinare delle identità riconoscibili, ossia delle figure.
  7. Momi sì, in alcuni brani, soprattutto quelli di qualche anno fa. Filidei forse, saltuariamente. Billone direi proprio di no. No, il codice era un mezzo per raggiungere il distacco dalla materia. Senz'altro. Nella tesi che ho citato ci sono anche diverse interviste a suoi allievi degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta... Sì e no. Il risultato in realtà, almeno a partire dagli anni Settanta, ma forse anche prima, non corrisponde all'alea. Al contrario, l'applicazione di un codice può determinare una certa omogeneità. Ad esempio, filtro una pagina dodecafonica mantenendo solo i suoni Do Re Mi Fa Sol La Si: ottengo una rilettura diatonica. Oppure vedi alle pp. 91-94 della tesi, dove si parla di Argot: lì troviamo la rigorosa applicazione di codici, ma il risultato è tutt'altro che aleatorio (difatti ci troviamo di fronte una semplice sequenza di scale ascendenti e discendenti).
  8. Esattamente, il codice è ciò che hai descritto. Niente di particolarmente complesso, in sé. Vuoi un esempio concreto di codice in Donatoni? Vedi a p. 174 https://www.scribd.com/document/246448246/Tesi dove si riportano degli appunti di lavoro di Duo pour Bruno. In alto si legge "b. 82 (da b. 55)": vuol dire, evidentemente, che la battuta 82 è una rilettura di battuta 55. Di seguito si leggono in codici, applicati alle famiglie orchestrali. Alla prima riga si legge il codice riservato agli ottoni: "dai clarinetti, ottava sotto, leggono sempre secondo la non-ripetizione: accentano (pp - ff) le note del tema". E così via. Per quanto riguarda gli emendamenti del codice e i sottocodici, suggerisco di leggere le pp. 103 e 176, in particolare dove si parla di plasticità. Tieni presente che l'intervista di Restagno è del 1990 ma Donatoni parlava di codice già negli anni Sessanta: in trent'anni ha senz'altro modificato il suo modo di concepire le tecniche compositive. I princìpi sono però quelli che abbiamo detto. L'esempio di codice che hai portato tu è corretto. Tieni presente però che Donatoni spesso preferiva non iniziare da una cellula (tre note) da far proliferare: più di frequente prendeva una pagina, sua o di altri compositori, e ad essa applicava i codici. Ad esempio (banalizzo) prendeva una pagina di un brano di Stockhausen e applicava un filtro: "rimangono solo le note pp", oppure "rimangono solo le note Do Mi Sol" (in quest'ultimo caso si potrebbe prendere Gruppen e farne uscire una rilettura diatonica).
  9. La visione sarebbe certo sconsigliata ai minori, temo però che i minori questo consiglio non lo ascoltino. Al contrario. Il web, YouTube in questo caso, amplifica l'imbecillità in modo incontrollabile. Ciò che un tempo poteva succedere all'interno di una classe, rimaneva sostanzialmente chiuso all'interno della classe. Ora l'inciviltà deve essere comunicata al mondo intero. Il problema dell'emulazione è reale: se vedo che in quella classe (magari dall'altro capo dell'Italia) si sono spinti a tanto, cosa posso inventarmi per superarli in nefandezze? Qualunque cosa sia, di sicuro farò in modo di farmi fare un video dai compagni classe, per lasciarne testimonianza e perché l'umiliazione subita dal professore di turno non rimanga confinate fra le mura della classe. E pur essendo favorevole all'impiego delle nuove tecnologie in classe, trovo tutto questo molto rischioso.
  10. Mi fa piacere condividere le riflessioni di un grande musicista sul tema di cui avevamo discusso tempo fa. Alexander Lonquich 28 settembre alle ore 19:11 · Firenze, Tuscany · A PROPOSITO DELLA NATURALEZZA IN MUSICA Cosa sta dietro al fatto che quando si incontrano dei musicisti che si stimano a vicenda, la premessa per poter suonare assieme consista in un codice “sintattico” condiviso, avvertito punto per punto e certamente non solamente teorizzato? Capace, affrontando delle opere del passato, di far riconoscere al gruppo se è il caso, al di là delle magari generiche dinamiche presenti nella partitura, di sentire insieme in modo indubbio quando si tratta di crescere o di diminuire, anche riguardante degli eventi microscopici, appoggiando alcuni valori più di altri? A percepire di un pezzo l’evoluzione tensiva, cogliendo picchi e valli fino ad individuarne il culmine e magari il defluire successivo? Ad avere la sensazione di cogliere il tempo giusto, le relazioni ritmiche precise, potersi mettere d’accordo su delle sottigliezze dell’articolazione, oltre l’approssimazione della scrittura e le rigidità presente nelle indicazioni metronomiche? A individuare in molteplici casi la necessità di varie libertà agogiche e di possibili rubati, rendendo convincente tra l’altro i continui spostamenti d'equilibrio all’interno della tessitura sonora tra il fluire orizzontale delle singoli voci e la densità verticale come risultante armonico, tenendo certamente conto dei riverberi, sapendo che ogni acustica esiga dei tempi leggermente diversi? E, infine, a percepire in modo nitido l’espressività dei singoli intervalli, uno per uno, intuendo per esempio di base cosa distingue “l’oggettività” di una quarta o quinta dall’agire affettivamente, intrinseca al vissuto abbinato a una terza o sesta, a metaforizzare dei passi riguardante delle seconde maggiori ascendenti o magari a sentire riverberare dei lamenti nelle seconde minori discendenti? La tentazione di voler affermare senza dubbio che nella natura umana tutto ciò sia platonicamente predisposto e semplicemente da riconoscere è grande, il che scatenerebbe probabilmente lo scherno e l’ira della maggioranza di chi oggi svolge delle ricerche estetiche e filosofiche sul campo. Da musicista attivo non ho per nulla la pretesa e l’ambizione di dare dei giudizi nel riguardo. Però come ipotesi di lavoro funziona egregiamente quella ricerca del respirare insieme in base a un sentire comune così spesso premiata dai buoni esiti sopra descritti. Magari delle discipline comparative hanno già dimostrate attraverso un’ attenta analisi delle musiche lontane dalla nostra area culturale che una condivisione “universale” non esiste, che per esempio la psicologia del comunicare sonoro nella musica tradizionale degli aborigeni non corrisponda minimamente al nostro. Rimane però l’evidenza che per noi l’approccio intuitivo unito alla capacità d’analisi sia la bussola. E pare lo sia stata forse anche di più nel passato, basta pensare alla teoria degli affetti rinascimentale e barocca, alle esplicitazioni pratiche nei trattati settecenteschi. C’è però anche da osservare che, direi nettamente a partire dagli ultimi decenni del settecento, la crescente tendenza alla massima soggettivazione nel comporre spinse alcuni autori ad abbandonare la precedente naturalezza di un approccio comune almeno nella propria area geografica, a buttarsi ad un corpo a corpo con ciò che prima pareva legge universale. E così troviamo i mille sforzati e crescendi seguiti da un piano subito in Beethoven, come se lui volesse piegare alla sua volontà, in maniera molto più accentuata dei suoi immediati predecessori, ciò che prima era affidato all'accadere appunto di un “naturale” fluire, inaugurando un finora inedito gioco con le tensioni melodiche e armoniche. Intensificando il discorso anche ritmicamente fino a prescrivere un forte separato da quello precedente a ogni metà battuta nel fugato dell’ultimo tempo della Nona, effetto vocale e strumentale quasi percussivo, espressione di un sentire dionisiaco. Più tardi, in particolare in Schumann e Mahler, si scriverà sempre di più musica che commenta altra musica, rompendo così l’illusione dell’unitarietà psicologica di un singolo pezzo. Non ci si può più crogiolare nell’illusione dell’immanenza formale e emotiva. Richiami da fonti esterne (autocitazioni, allusioni e citazioni in generale) confermano che ci viene richiesto di rivolgere lo sguardo al di fuori dal giardino nel quale prima ci eravamo così bene acclimatati. Avrà massima importanza l’indicazione del compositore su come suonare un passaggio. Che in Schumann possono farsi parecchio immaginifiche: Wie aus der Ferne (come da lontano), Ungeduldig (impaziente), Sehr rasch und in sich hinein (molto veloce e rivolto verso l’interno di se stessi), Etwas hahnbüchen (un po’ insensato, storto). La "Innere Stimme" (voce interna/interiore), per l'udito puramente chimerica, nella Humoreske modifica l’approccio alle voci presenti. In più, tornando a dei passi già ascoltati, il giovane Schumann ama modificare la dinamica e l’articolazione di molti dettagli, quasi come obbedendo ad un capriccio istantaneo. E, appunto, ci conduce attraverso un gioco di specchi e riflessi a riconoscere opere precedenti sue e di altri, a individuare con i mezzi di una sua personale crittografia musicale personaggi ed eventi reali e immaginari. Ciò ci porta fuori dallo spazio ben delimitato dell’opera compiuta, incoraggiando la mente a tessere delle trame complementari, a volte addirittura supplementari. L'avvertenza “Mit Parodie” (parodisticamente) riferita all'evocazione bandistica del terzo tempo della Prima di Mahler rompe definitamente l’illusone di una forma musicalmente autosufficiente, del resto all'epoca già compromessa in tutt’altro modo attraverso il confondersi di generi nel Gesamtkunstwerk wagneriano e l’uso di tecniche associative nel poema sinfonico. Come già detto molte volte, a partire da Adorno, Mahler coltiva fino dagli inizi sovente il “come se”, l’inserto di elementi estranei, non intriseci a un discorso organico, a tal punto da mettere in dubbio se tale discorso possa ancora esistere. L'apparente “già sentito” domina le sue costruzioni, anche se si discosta di molto dai modelli da lui suggeritoci come appiglio. Il tema iniziale della Quarta, ricavato da Haydn, Mozart e Schubert, non trova nessuna reale corrispondenza negli autori nominati. Le sue indicazioni iper-precise testimoniano irrevocabilmente lo spostamento del terreno sul quale si muove il creatore consegnandoci il risultato delle sue elaborazioni, si è fatto una specie di regista teatrale della propria opera, già così lontano in questo dai mondi altrimenti opposti di Bruckner e Brahms. Già, Brahms: lui compie l’ultimo sforzo di mantenere intatta l’immanenza formale, ma tutta la splendida melanconia albergata nella sua densissima opera pare risultare prodotto di un preciso intento ermeneutico: costituirsi commento tardivo a un mondo destinato a non rimanere percettivamente integro. Ci saranno poi fino a oggi molti autori tendenti a ristabilire in forme nuove degli equilibri puramente interni all’accadere musicale, facendo tabula rasa di tutte le esperienze precendenti come i primi serialisti, o invece cercando di conquistare una “nuova” naturalezza della scrittura. Ma mi pare evidente che il “peccato originale” di una scissione percettiva collettivamente avvenuta sia irrevocabile. Come può reagire l’interprete (intendo con questo anche il lettore di partiture e l’ascoltatore) a ciò? Secondo me cercando di andare al cuore della scrittura di ogni singolo autore, cogliendone non solo ciò che corrisponde a un’idea di naturalezza esecutiva, ma anche gli angoli e spigoli, là dove il Schubert o il Debussy di turno è entrato in contraddizione percettiva con l’ambiente circostante, là dove una sua grammatica personale ha avuto la ventura di alterare la grammatica generalmente condivisa. Forse il gruppo di musicisti affini evocato sopra sarà in grado di individuare “organicamente" anche quelle particolarità che sfuggono ad ogni tipo di legge universale che per tanti secoli pareva dominare l’arte del comporre. Incluso delle specificità linguistiche localizzabili, “dialettali”. Ma c’è qualcosa in più: leggo spesso dei commenti indignati su tante operazioni di accostamento tra elementi molto lontani l’uno dagli altri. Che si tratti per esempio di regie operistiche lontanissime dalle prescrizioni degli autori o di abbinamenti di video inusuali a musiche ben conosciute, insomma, di tutto l’ambaradan postmoderno, incluso delle vere e proprie cadute verticali di gusto e di stile. Spesso questo nostro inalberarsi si giustifica in pieno, specialmente quando è evidente l’intento commerciale di un’operazione. Non dimentichiamo però di non poter vivere in un’Arcadia mentale, non sarebbe neanche auspicabile. L’apparentemente distante è dietro l’angolo, siamo noi i primi a proiettarci continuamente verso dei concatenamenti di associazioni inedite. Creare dei ponti sinattici è un’attività prettamente umana. Perché stupirci se ciò succede nella prassi artistica ed interpretativa? Conta la qualità del vissuto. Un’opera comincerà in un momento e finirà in uno successivo, la nostra attitudine ad unificare del vissuto va molto oltre quella breve durata, e non sarà certamente delimitata da essa. Per cui, se siamo musicisti, l’esecuzione concreta con tutti i suoi pregi e difetti in quel momento è la parte più tangibile delle nostre attività, l’unica che l’ascoltatore potrà valutare e forse far sua, ma ci sono molti strati percettivi che non coincidono con quell'arco di tempo, tenendoci in movimento di continuo. Ben vengano. Qualcosa di frammentario persisterà comunque anche in un esprimersi apparentemente compiuto. Ed è lì che troveremo il prossimo aggancio.
  11. In effetti il riferimento a Schubert, in questo contesto, è davvero calzante. In tarda età Claudio Arrau dichiarava, in una intervista: il problema definitivo dell'interpretazione è Schubert. E poi si correggeva: in realtà, il problema definitivo dell'interpretazione è Mozart. Non sono certo in grado di fare l'esegesi del pensiero di Arrau ma credo che - pur presentando difficoltà assolutamente diverse - Schubert e Mozart siano realmente accomunati dallo stesso alone di mistero.
  12. Il suo lavoro sorprende subito nel rincorrersi nervoso delle corde stoppate, pizzicate, nei sibili misteriosi, nello sviluppo di onde sonore, cicliche e sospese su un silenzio come vuoto enigmatico. È possibile leggere il suo interno metafisico come una condizione di irrelatività, negazione di significato? «È possibile leggerlo come negazione di un’evidenza, come rappresentazione di un immaginario sottile, che è espressione della spiritualità dell’uomo contemporaneo. Il suono può essere espressivo di per se stesso e non necessariamente per qualcosa di estraneo che dovrebbe rappresentare o significare. In questo lavoro il trattamento della texture, scabra, materica e tuttavia astratta, supera l’aspetto propriamente figurativo, cercando di evocare piuttosto che raccontare, ricorrendo a procedimenti di accumulazione e rarefazione, densità e trasparenza, e disegnando un’arcata formale di ampio respiro attraverso la graduale metamorfosi dei gesti sonori iniziali. La materia dell’opera è silente, ma viva, capace di costruire una drammaturgìa sonora fortemente polisemica. In una simile concezione, la stessa gestualità legata al materiale di cui si compongono gli strumenti ad arco costituisce una possibile fonte di senso. I significati quindi risiedono nel flusso sonoro, concepito come somma di elementi armonici e inarmonici, e nella gestualità stessa dei musicisti che dipingono quasi una coreografia del suono. L’atto creativo si traduce nel tentativo di catturare l’impressione, piuttosto che fornire una descrizione». Da http://www.ilcorrieremusicale.it/2016/02/18/interno-metafisico-daniela-terranova/
  13. Non saprei cosa aggiungere di meglio... E dunque prendo un altro filo della discussione... Perché, a titolo di cronaca, mi sono ricordato qualcosa sulla musica che si fa da sé: è un'idea circolata fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, con alcuni compositori che avrebbero inteso auto-annullarsi mettendo in atto procedimenti automatici di scrittura. Dato un materiale di base (un accordo, una serie di intervalli...), si applicano ad esso dei codici astratti che lo fanno moltiplicare dando luogo a un brano. Alcuni lavori di Franco Donatoni e Aldo Clementi seguono questi principi. Berio li critica, con la consueta caustica ironia, nella fondamentale Intervista sulla musica. In ogni caso, nulla a che vedere con Mozart - per nostra fortuna, aggiungo.
  14. "Il lavoro si configura come uno studio sull'essenza materica del suono, fortemente legato ad un’esplorazione dei materiali di cui si compongono gli strumenti musicali stessi. All'aspetto primordiale della materia, libera dalla necessità di un soggetto esterno, il segno imprime l’espressività della forma. Il trattamento della texture, scabra e astratta, supera l’aspetto propriamente figurativo, cercando di evocare piuttosto che raccontare, disegnando un’arcata formale di ampio respiro attraverso la graduale metamorfosi dei gesti sonori iniziali. Strappi e sfibramenti disegnano un paesaggio ferito, metafora di una realtà frammentata, destinata allo sgretolamento. Una memoria sottile attraversa il groviglio per cogliere l’intima relazione di tutte le parti, come un orizzonte di fissità che affiora da uno spazio interiore." Traiettorie 2016 - XXVI Rassegna Internazionale di Musica Moderna e Contemporanea Concerto dell'Ensemble Prometeo del 23/11/2016 presso la Casa della Musica di Parma Daniela Terranova (1977) "Di natura sottile" (2016) per flauto, clarinetto, violino, viola, violoncello, pianoforte e percussioni **Prima esecuzione assoluta – Commissione Traiettorie 2016 Giulio Francesconi, flauto Paolo Ravaglia, clarinetto Georgia Privitera, violino Gabriele Croci, viola Claude Hauri, violoncello Anna D’Errico, pianoforte Simone Beneventi, percussioni Marco Angius, direttore
  15. Caro Luca, può darsi ... anche se non sono certo i primi esempi che mi vengono in mente. E poi, musica che si fa da sé, a dire il vero, non lo posso proprio leggere! In ogni caso, il Preludio di Bach è l'eccezione più che la regola: in Bach l'enfasi è di norma sulla costruzione, sugli infiniti modi di dare forma al tutto in relazione diretta o indiretta con il soggetto, intendendo questo concetto nel senso più ampio. Ma pensando alla naturalezza più o meno evidente di questo Preludio, può essere interessante notare che anch'essa non nasce di getto, essendo il risultato di un processo di revisione: vedi la primitiva - e forse meno naturale - versione del quaderno di Wilhelm Friedemann Bach. In generale ho una certa diffidenza verso i tentativi di entrare nel laboratorio del compositore (gli studi sui cosiddetti "processi compositivi"). Ma è utile ribadire l'osservazione che hai già citato: proprio ciò che suona "naturale" è, non di rado, frutto di artificiosa elaborazione e complessa messa a punto, anche stando a quanto ci dice che ha studiato gli abbozzi di Chopin, Grisey. Comunque terrei nettamente distinti la naturalezza e facilità nel comporre. Rimanendo nell'ambito del Classicismo viennese, noterei piuttosto il fatto che Mozart, a differenza di Haydn e soprattutto di Beethoven, persino in opere notevolmente articolate può fare a meno di enfatizzare l'elemento di contrasto, quando non vi rinuncia del tutto. Eppure mi viene in mente un esempio proprio in Beethoven - e del resto, per lui assolutamente atipico, essendo il brano stesso tutt'altro che classico: la Scena presso il ruscello della sesta Sinfonia. Ripeto: in Beethoven questi casi sono al limite - e forse il riferimento alla natura non è un caso, perché potrei citare anche il primo movimento dell'op. 28, come l'ultimo dell'op. 53. Cambiando un poco prospettiva, pensavo a questa chiave di lettura per evidenziare analogie e differenze fra Xenakis e Ligeti: per Xenakis la natura può fornire un modello generale per descrivere un fenomeno musicale (il canto estivo delle cicale come illustrazione del suono di massa) mentre in Ligeti c'è enfasi dichiarata sul meccanismo (gli orologi) che però, a determinate condizione (semplificando: moltiplicato abnormemente) può determinare situazioni caotiche (le nuvole) sconfinanti nuovamente nel suono di massa: con un passaggio graduale dal meccanico al naturale, o viceversa (esempio didascalico il Poema sinfonico per 100 metronomi, o magari Clocks and Clouds, sicuramente fra i brani che vantano il titolo più bello in assoluto). "Clocks and Clouds" for 12-part women's chorus and orchestra. [...] Ligeti's "Clocks and Clouds" is a relatively-short composition from 1972-1973 that takes its title from Karl Popper's 1966 philosophical essay "Of Clouds and Clocks". In this, Popper makes a compelling and easily-understood argument that scientific phenomena can be broken down into two main categories. The "clocks" are things that we can depend on such as, well, clocks. A clock can be easily measured, taken apart, and reconstructed. "Clouds", on the other hand, are things that we can only get a general, macroscopic view of -- things whose inner-workings we are unable to understand in a deterministic way. A cloud cannot be easily measured nor can it be taken apart. Furthermore, Popper argues that clouds are really made up of a cumbersome number of clocks -- so many that the whole cannot be understood completely. It isn't at all surprising that the meteorologist Edward Lorenz was making major breakthroughs in what we now tend to call "chaos theory" -- most easily defined by a sensitivity to initial conditions. Lorenz's major work in this area is known as "The Butterfly Effect" from the famous question he posed "can the flap of a butterfly's wings in Brazil cause a tornado in Oklahoma?" Throughout the 1960s, Ligeti was composing in two distinct styles described perfectly by Popper's essay. The "clouds" category includes works such as "Atmospheres" (1961), Lontano (1967), and the first movement from his "Cello Concerto" (1966). Examples of pieces falling under the "clocks" description are the third movement of his "Chamber Concerto" (1969) and the third movement of his "String Quartet No. 2" (1968). This "mechanical" style can be traced back to his semi-comical 1962 "Poem Symphonique pour 100 Metronomes", in which 100 metronomes are wound-up and left to unwind at various tempos. While compositions such as the "Chamber Concerto" and "String Quartet No. 2" do include both "clouds" and "clocks", they are presented in separate movements. It is in "Clocks and Clouds" where Ligeti seamlessly connects one to the other. Being one of his last works in this micropolyphonic style, it is a great summing up of a stylistic period.
  16. Non so ovviamente cosa intendeva il nostro amico fabio73 parlando del naturale sgorgare dei suoni. Non mi sentirei però di liquidare questa espressione come eterna retorica senza senso. Posso convenire sul fatto che si tratti di retorica, e magari sarà pure eterna. Difficile invece sostenere che sia senza senso: all'opposto, direi che ha una moltitudine di significati, talvolta addirittura in opposizione. In riferimento alla musica, la dicotomia natura-cultura, o naturale-artificiale, ha avuto e continua ad avere fortuna quanto poche altre (mi viene in mente, ad esempio, l'eterna discussione sul rapporto parola-musica). Se ne parla anche qui http://www.nuthing.eu/2012/05/artificiale-naturale.html#comment-form. In Mahler, naturale come opposto non tanto di culturale o artificiale quanto di civilizzato: Naturlaut nella prima Sinfonia, o - in misura più significativa - l'intera terza Sinfonia, per non parlare del Wunderhorn. Discorso analogo, certo però meno esplicito, per Brahms e, risalendo all'indietro, per Beethoven - che però esigerebbe, anche qui, un capitolo a parte. Diverso, almeno in parte, il caso di Webern: per lui il riferimento alla natura è precisamente nel punto di contatto fra emozionale e strutturale. Forse forzando un po' la mano spesso si pensa, più che alla pianta primordiale da lui citata, a delle qualità minerali: pur sempre di natura si tratta. In Wagner la natura, e direi proprio il naturale sgorgare del suono, non è solo un referente poetico bensì una realtà che fa nascere un nuovo concetto puramente musicale: l'intero Siegfried, o più semplicemente l'apertura dell'Oro del Reno. Cambiando prospettiva, la natura è il modello diretto ed esplicito di una stirpe di musicisti che va da Pitagora a Xenakis, da Rameau a Grisey: dove il punto di partenza è precisamente la natura del suono intesa in senso fisico, l'armonia/disarmonia come realtà naturale determinata da strutture infinitamente complesse. Dove si colloca Mozart in tutto questo? Francamente non lo so. Se penso agli esempi fatti finora, oppure alla Gran Partita, credo però ci sia un nesso: forse la sua capacità (ineguagliata dai contemporanei, da Haydn e Beethoven, e da gran parte dei posteri, magari con le eccezioni di Chopin, Bizet, Ravel, Grisey...) di non intervenire, di lasciar andare (o lasciar sgorgare, per riprendere la metafora di prima): in altri termini, distacco e oggettività che gli conferiscono il tono classico per eccellenza. Purtroppo non trovo delle parole abbastanza precise, ma credo che - con un po' di impegno - il concetto si possa mettere a fuoco anche su un piano tecnico.
  17. Cosa significa questa frase? Non so se è giusta o sbagliata. Probabilmente è giusta. Mi chiedo però cosa significa. Per quale motivo l'Andantino del Concerto per flauto e arpa è sgorgare naturale dei suoni? Spiegaci meglio.
  18. Mi aveva colpito, quando lo ascoltai dal vivo, a suo tempo – e continua a rimanermi impresso…
  19. Che Mozart arrivi lì dove altri non arrivano, in fin dei conti, è nulla di nuovo. Non è un caso che una delle più profonde riflessioni sulla musica sia stata condotta da Kierkegaard, che musicista non era («So bene che di musica non me ne intendo, ammetto volentieri di essere un profano, non nascondo di non appartenere alla schiera eletta degli intenditori di musica»), e sia dedicata a Don Giovanni. E infatti: «Nella musica vi possono certo essere molte altre opere classiche, ma c’è un’opera sola della quale si può dire che la sua idea è assolutamente musicale, così che la musica non vi entra come accompagnamento, ma come manifestazione dell’idea, come manifestazione del suo essere più profondo. Perciò Mozart col suo Don Giovanni sta sopra tutti gli altri immortali». Oppure: «Chi vuol conoscere Mozart nella sua vera immortale grandezza, deve considerare il Don Giovanni: in confronto ad esso tutto il resto è casuale, secondario. Ma quando si considera il Don Giovanni in modo da tener presente anche alcune altre parti delle opere di Mozart, sono convinto che non si diminuisce o pregiudica né lui, né se stesso, né il prossimo. Si avrà anzi occasione di rallegrarsi che la vera potenza della musica si esaurisca esprimendosi nella musica di Mozart». O più brevemente: «Praeterea censeo che Mozart sia il più grande di tutti gli autori classici, che il suo Don Giovanni meriti il posto più elevato fra tutte le opere classiche».
  20. Ho sempre trovato l’op. 53 un brano difficile da capire. Ha un ritmo (un “respiro”) del tutto particolare, probabilmente legato alla bizzarra proporzione fra le armonie molto dilatate e assieme molto lontane, da una parte, e al paesaggio tematico molto spoglio, d’altra parte. Uno spiraglio – come sempre in questi casi – mi viene da Schnabel. Ma neanch’io so cosa intendesse dire Ligeti.
  21. Mi sembra che ci si stia perdendo in un bicchier d'acqua! Se vuoi regalargli la partitura della Nona Sinfonia, regalagli la partitura della Nona Sinfonia. La Bärenreiter ha pubblicato l'edizione critica più aggiornata e affidabile. Sono diciassette euro. La puoi ordinare da casa. Lascia perdere la Dover. Lascia perdere il negozio della tua città. https://www.baerenreiter.com/en/shop/product/details/TP909/ Se poi il tuo amico vorrà la riduzione per pianoforte, la potrà trovare su IMSLP sotto "Arrangements and Transcriptions" http://imslp.org/wiki/Symphony_No.9,_Op.125_(Beethoven,_Ludwig_van) Qui c'è la versione di Liszt http://ks.petruccimusiclibrary.org/files/imglnks/usimg/2/22/IMSLP01060-Beethoven-Liszt_Symphony-9.pdf
  22. Come sempre - o quasi sempre - trovo perfetto ciò che scrive Luca! E per quanto riguarda il significato della musica, citerei (di nuovo) un erudito credente come Mendelssohn (non ho mai letto niente di altrettanto definitivo, o perlomeno niente che fosse espresso con tanta forza ed eleganza) https://www.pianoconcerto.it/forum/index.php?/topic/5925-celibidache-musica-e-verità/?p=43740
  23. Esattamente, mi riferisco a Busoni e non all'interprete di Busoni. In realtà non le posso proprio vedere, nemmeno al basso. Forse è semplicemente l'impatto visivo, ma quelle ottave - in Bach - mi disturbano (anche a prescindere dal risultato sonoro).
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