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Piano Concerto - Forum pianoforte

danielescarpetti

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Tutto postato da danielescarpetti

  1. A costo di sembrare noioso, dirò ancora una volta che sono completamente d'accordo con Claudio. Mi piace però riprendere questa parte del tuo discorso per dire che, qualcuno potrebbe ribatterti che oggi siamo in tempo di renzismo e non di grillismo. Qualcuno, ben inteso, non io! In realtà, sia il grillismo che il renzismo - e ancor prima il berlusconismo - sono tante facce della nostra amata Italia, facce da cui non riusciamo ad emergere perché ... Personalmente continuo a pensare che fra le tante iettature con cui ci piace immergerci, il renzismo - condizionale assolutamente d'obbligo - potrebbe essere l'inizio di una fioca luce in un tunnel che non ha mai fine. In attesa di appurare se sarà così o meno, cominciamo tutti a fare il nostro dovere e a piangerci un po' meno addosso e pensare che tanto, la colpa è sempre solo degli altri.
  2. Penso che, aldilà delle ragioni o dei torti di Muti, - e comunque è limitativo e, soprattutto fuorviante, ridurre il suo comportamento ai suoi capricci - il problema sia un altro: l'ingovernabilità e la situazione di collasso in cui versano i nostri enti lirici e la musica in generale in Italia. E sull'ingovernabilità bisognerà domandarsi di chi sono le responsabilità a cominciare - non solo naturalmente - dalle organizzazioni sindacali che, appunto in quanto tali, dovrebbero avere una visione ben più ampia e lungimirante della situazione se veramente vogliono assolvere il loro compito: salvaguardare i posti di lavoro e salvaguardare la vita musicale in questo martoriato Paese, e non richiudersi in motivazioni ideologiche o, ancor peggio, corporative. Tirare la corda quando è completamente lisa, equivale a spezzarla. E quando si sarà spezzata ... ciao!
  3. Io i problemi li ho sia quando quoto che quando non lo faccio. Ora ad esempio per quotarti sono impazzito. Del video, penso che posso essere d'accordo, in linea di massima col direttore di Repubblica. Sul fatto Muti e tutto ciò che ne consegue invece, io sono d'accordo al 100% con Claudio e, continuo a non capire - limite mio naturalmente - dove Ettore vuole arrivare, e lo invito ad essere ancora una volta più esplicito, se gli va e può!
  4. Sì, scusate, ma, in realtà volevo mandare un messaggio ed è saltato fuori quell'obbrobrio, poi non son riuscito più a rimediare. non so se è colpa del mio computer o a problemi tecnici nel forum. Comunque avrei voluto chiedere ad Ettore come avrei dovuto interpretare il titolo: fuga di Muti e l'affermazione: mi sembra una notizia "marginale". Confesso che avrei preferito un'esposizione più esplicita del pensiero di Ettore per poi poter, di conseguenza, rispondere e dire la mia.
  5. Ho corretto nel mio blog! Questo topic mi da l'occasione per dire quel che penso dell'Oratorio in questione. Anzi lo lascio dire a Carli-Ballola che secondo me ha centrato appieno la questione. (...) sfiducia Beethoven nutrì per tutto il resto della vita nei riguardi di questo lavoro (...) aveva pienamente ragione nel definire così il “Cristo nel Monte degli Ulivi”; ma ne aveva assai meno credendo di ravvisarne nella drammaticità il difetto fondamentale. Il breve oratorio si articola infatti come un vero atto d'opera seria, movimentato e ricco di contrasti, nel quale è liberamente narrato l'episodio evangelico del Getsemani.(...) Nell'accingersi a musicare un testo siffatto, Beethoven dette prova di grande coraggio e, insieme, di grande incertezza e ingenuità. Fu coraggio il decidere di dar vita musicale alla figura di un Cristo completamente umanizzato, privo di qualsiasi alone sovrannaturale e teologico: un eroe che si appresta tra mille ambasce ma con fermezza a offrirsi in olocausto per il bene del mondo. Tale idea collimava con i principi della religio laica ed umanitaria professata da Beethoven, il quale, facendo proprio un motivo tradizionale del dibattito illuministico sulla religione, amava circonfondere Gesù e Socrate di un'unica aureola eroica di spiritualità e di saggezza, proclamandoli suoi modelli ideali. A quest'immagine del Cristo-uomo vigorosamente tratteggiata da uno dei più potenti recitativi mai scritti da Beethoven e in una concitata aria in do-, che contiene un meraviglioso “principio implorante” sulle parole «Padre, profondamente oppresso e tra i lamenti tuo figlio t'implora»; come anche nella drammaticissima introduzione in mib-, con i terrificanti appelli dei tromboni e il pulsare sordo dei timpani – la più forte pagina sinfonica scritta da Beethoven prima dell'Eroica – l'oratorio deve i suoi momenti di gran lunga più riusciti e convincenti.(...)» Insomma è un'opera assai importante se non proprio musicalmente, in quel percorso filosofico/religioso che portò Beethoven alla Missa Solemnis!
  6. Cari Armando e Luigi, ho letto con molto interesse l'articolo e fra le altre cose, mi ha colpito il fatto che si afferma che i primi abbozzi del Cristo sul Monte degli Ulivi risalgono all'autunno del 1802. Più sotto si dice che lo stesso Beethoven affermò però che per comporlo ci mise 14 giorni e dunque, almeno teoricamente, i conti non tornano. A me risulta che le cose siano andate invece in questa maniera: Emanuel Schikaneder, meglio famoso per aver scritto il libretto del Die Zauberflöte di Mozart, fu il direttore artistico del principale e più grande teatro di Vienna: il Theater an der Wien - già Theater auf der Wieden – dove si eseguivano opere per un pubblico borghese che prediligeva opere divertenti e in lingua tedesca. Tuttavia, fin dal 1802, si fecero strada le Opere francesi di Luigi Cherubini e André Grétry, eroiche, drammatiche e con molta musicalità. All'inizio del 1803, Schikaneder, propose a Beethoven di comporre un'opera tedesca per vedere di arginare questo fenomeno. Nel contratto si offrì a Beethoven e al fratello Karl, di domiciliarsi in un appartamento di servizio del teatro al secondo piano, in qualità di compositore del medesimo. Beethoven accettò e, il 22 gennaio, era già lì accasato, come apprendiamo dalla lettera 125 all'editore Breitkopf & Härtel. Oltre alla dimora il contratto gli concesse la possibilità di avere un'accademia a suo beneficio. Il libretto dell'opera, naturalmente, fu lo stesso Schikaneder ad offrirlo al compositore e si trattò Vestas Feuer. Guardò Beethoven o non lo guardò il libretto? Sicuramente, comunque fosse, lo mise da parte: quello che in realtà a lui interessò in quel momento, fu organizzare al più presto l'Accademia per poter guadagnare al più presto del denaro, di cui fu sempre a corto. Nel tempo che va fino alla data dell'Accademia – il 5 aprile – la corrispondenza dei fratelli Beethoven, fu incentrata con Breitkopf & Härtel e, ancora ci fu una coda che riguardò la pubblicazione dell'Opus 29 che si chiarì definitivamente. Il programma dell'Accademia fu deciso assai rapidamente e si optò, ovviamente, per le novità orchestrali: “Seconda sinfonia Opus 36” e il “Terzo concerto per pianoforte e orchestra Opus 37” con l'aggiunta, però, anche della Prima Sinfonia Opus 21. Fu importante però mettere in risalto anche il nuovo ruolo che Beethoven ebbe da Schikaneder e dunque, bisognò comporre qualcosa che sfruttasse il coro del teatro. Dal 1790, a Bonn, Beethoven, non aveva più composto musica vocale con cori e voci soliste e, dunque Vienna non lo conosceva per nulla, sotto questo profilo. A marzo, Beethoven scelse il tema e si trattò di un Oratorio, quello che diventò dopo vari rimaneggiamenti il “Cristo sul monte degli ulivi Opus 85”. Per l'organizzazione, ancora una volta e come sempre, furono gli amici del compositore ad interessarsi e Beethoven decise solo il prezzo del biglietto, anche perché proprio in quel periodo, il fratello Karl si ammalò di una grave malattia e il compositore si dovette occupare di lui. Ora, cari miei, il fatto che gli abbozzi risalgano all'autunno 1802, mette in crisi un po' il tutto e visto che nel mio blog sto scrivendo una biografia beethoveniana legata alle opere, vorrei comprendere esattamente invece come andarono le cose. Grazie in anticipo
  7. Già, come temevo. Ancora una volta, in linea con quello che è un mio principio primario, non mi metterò a discutere i gusti altrui che, a prescindere da tutto, meritano sempre il massimo rispetto. Ciò detto, e me ne scuso, non posso dolermi del fatto che persone che hanno possibilità di gran lunga più ampie delle mie per entrare nel merito di un compositore e delle sue opere la pensino in questa maniera. Dalla mia parte, su Brahms, aldilà dei miei sentimenti e gusti, ho il fior fiore della musicologia - non ultimo ma per ultimo, Quirino Principe in un'intervista a Radio tre l'altra sera in occasione del primo concerto a Milano di MI.To musica - e di per sé dovrebbe più che consolarmi; ma non è così, anche se non so spiegarmene il perché, visto che comunque sia a me non ne torna nulla, in un senso o nell'altro. Ma, giustamente questo è un problema del tutto mio a cui forse un giorno saprò dare risposta o, ancor più probabilmente, rimarrà uno dei tanti miei punti interrogativi sulla mia personalità. Probabilmente nessuno ha letto quello che ho scritto su Brahms e...comunque avete ragione a non farlo. Voglio aggiungere solo una cosa: il catalogo di Brahms, per chi ha orecchie da intendere e d ascoltare realmente, è cosparso di capolavori che se proporzionati alle quantità delle opere da lui composte , sono superiori come numero a quelli, sempre in proporzione alle opere composte, di Bach, Beethoven e Mozart. E... non lo dico io. E' un dato di fatto. Brahms siede con tutte le carte in regola a fianco dei giganti di ogni tempo della musica. Mentre sicuramente non ci siedono e non ci siederanno tanti di quei compositori che ad ogni piè sospinto cercate di introdurre in questo olimpo. Mi spiace, se vorrete farvene una ragione tanto meglio se no... fate voi!
  8. ??????????? In che senso????????????????????????????????????
  9. A questo punto però sarebbe interessante sapere anche il tuo punto di vista. No?
  10. Claudio...l'hai voluto tu, ora però non lamentarti. Johannes Brahms e i suoi quattro periodi compositivi Johannes Brahms, è senza alcun dubbio uno dei più grandi geni della musica colta occidentale ma, nonostante ciò, soprattutto nei paesi latini, rimane ostico e lontano dai gusti di tanti ascoltatori. La domanda che ne consegue è dunque: come mai, molta (troppa) musica di questo compositore (a dispetto degli innumerevoli capolavori assoluti da lui composti) continua ad essere pressoché ignorata ancora, nonostante in suo favore siano intervenuti negli ultimi ottant'anni, numerosi autorevoli personalità musicali e intellettuali? Parlo degli ultimi ottant'anni perché fu esattamente nel 1933, anno del centenario della sua nascita, che Arnold Schönberg in una conferenza dal titolo “Brahms il progressivo”, mise definitivamente una pietra tombale, sopra ogni polemica negativa riguardante il genio d'Amburgo dimostrando come Brahms – il classicista, l’accademico – fu, in realtà, un grande innovatore nella sfera del linguaggio musicale. In particolare, Schönberg attribuì a Brahms il merito di una prosa musicale moderna, ottenuta spezzando le simmetrie d’una forma schematica a corto respiro ed estendendo le modulazioni a regioni molte lontane dalla tonica. Brahms con la sua prosa musicale si può accostare in letteratura a Marcel Proust: «In “Du coté de ches Swan” certe persone anche molto colte, fraintesero la composizione rigorosa, benché velata (e forse più difficile da discernere perché era a larga apertura di compasso e perché il pezzo simmetrico d’un pezzo precedente, la causa e l’effetto, si trovavano a grande intervallo l’uno dall’altro) e credettero che il mio romanzo fosse una specie di silloge dei ricordi, concatenati secondo le leggi fortuite dell’associazione delle idee». L’analogia dei procedimenti (le simmetrie lontane di Proust sono l’equivalente in Brahms alle modulazioni a largo raggio d’escursione tonale) rivela l’insospettata analogia dei contenuti. Il compositore non si limitò alla sua sfera personale di timido incapace di affrontare la vita, di scapolo inveterato e pieno di struggimento per le gioie della famiglia, ma fu la solitudine dell’uomo il vero soggetto della sua arte superlativa e fu la ragione intrinseca della sua grandezza. Schönberg rilevò anche giustamente come, col passare del tempo, l’antitesi Wagner/Brahms fosse sempre più scemata, per lasciare spazio in maniera postuma, ad una convergenza, dove i comuni tratti romantici dell’epoca finirono per contrastare le posizioni individuali. Infine,Schönberg, rilevò come Brahms si avvicinò ad una «musica per adulti (…) le persone mature pensano in termini complessi e tanto maggiore è la loro intelligenza, tanto più numerosi sono gli elementi con cui hanno famigliarità». Brahms, indubbiamente è dunque un compositore difficile e, questa difficoltà, egli se la conquistò attraverso il confronto con Beethoven, compositore che, volente o nolente, condizionò tutta la storia della musica che a lui seguì per almeno cent'anni dopo la sua morte. Ma quali furono i motivi per cui molti ancora oggi sostengono che Brahms rappresentò a suo tempo la conservazione? Brahms, da assertore strenuo della tradizione sinfonica e della forma-sonata, si schierò contro il poema sinfonico di Franz Liszt, il Wor-ton-drama di Richard Wagner, i polemici proclami di Hector Berlioz. Brahms fu, come disse Massimo Mila: «un solitario, un timido incapace d’affrontare la vita nella sua pienezza, scapolo inveterato e pieno di struggimento per le gioie della famiglia, romantico tardivo al quale ogni scelta si configura come strazio per la privazione di tutti gli altri beni che quella scelta esclude (…). Non la solitudine propria, ma la solitudine dell’uomo è il soggetto dell’arte di Brahms ed è la ragione intrinseca della sua grandezza.». Eppure anche uno come Massimo Mila, d'altra parte, partì da posizioni non certamente favorevoli verso questo genio musicale per poi, in un secondo momento, confessare candidamente i propri errori in merito. Riferendosi a quanto da lui stesso scritto nel 1933, nel 1966 fece completamente ammenda di tutto ciò ma, spiace constatare come dopo quasi cinquant'anni da allora, per molti ascoltatori, il pollice sia verso per il compositore di Amburgo. Scrisse Mila: «Il saggio su Brahms, per il centenario della nascita, è il disastroso punto di partenza d'un lungo viaggio di avvicinamento, che attraverso tappe successive mi avrebbe portato da uno stato d'insofferente sordità, complici i pregiudizi anti-romantici della “modernità”, a una condizione di affetto quasi idolatrico (...). Brahms è il primo e probabilmente il più grande maestro del Decadentismo, cioè della civiltà moderna. Decadentismo che nella musica (...) significa appunto ingresso della cultura come componente della creazione artistica, necessità improrogabile di fare i conti con un passato accumulato da secoli, obbligo di assumere coscientemente le proprie responsabilità storiche (...) Brahms come l'ultimo Verdi e poi Reger, Debussy e Busoni (...) iniziarono, come dice Schönberg di Brahms, «a scrivere musica per adulti». (...) Dispostissimi, essi, a mettere il piede nelle orme del passato e ad annettere la cultura storica tra le forze creative dell'arte; e ciò fecero con un potere di assimilazione che mancò ai loro continuatori neoclassici. (...) Brahms prende il basso di una Cantata di Bach per la passacaglia della Quarta Sinfonia, e uno manco se ne accorge, perché la potenza della sua fantasia musicale, nutrita di cultura, assicura la completa omogeneità: allora la citazione bachiana, analogamente a quanto avverrà nel Concerto per violino di Berg, si comporrà come quei pezzetti d'epidermide che si prelevano da una parte sana per collocarli all'interno di una grande bruciatura, dove a poco a poco germogliano ripristinando l'intero tessuto distrutto. Nell'animo di chi ha scritto la Quarta Sinfonia e il Quartetto con clarinetto sono passte le forze che hanno sconvolto il mondo negli ultimi cent'anni e le esperienze di vita su cui sorgono, Proust e Kafka, Freud e Joyce, Musil e Thomas Mann. Solo che Brahms è il più grande di tutti, e la storia della cultura non riuscirà mai a farsi un quadro completo ed esauriente del Decadentismo europeo, finché trascurerà di annettersi i valori musicali. D'altra parte la cultura musicale è restia a riconoscerla modernità dell'arte di Brahms, perché soggiace ancora agli strascichi faziosi d'una polemica le cui giustificazioni storiche sono oggi esaurite. Eppure Schönberg aveva ben visto che quando alla morte di Wagner « era stato materia di profondo contrasto » già alla morte di Brahms «apparve nella sua effettiva realtà, ossia la differenza fra due personalità, fra due stili espressivi, non così contraddittori da impedire la contemporanea presenza delle qualità di entrambi in una stessa composizione». Se per Beethoven si può parlare di “tre stili” la carriera di Brahms si divide in “quattro periodi”. Il “primo periodo” comprende, ovviamente, le opere più giovanili ed arrivò al 1855. Fu caratterizzato sul piano umano dalla crescente amicizia per il violinista József Joachim, e dall’affetto verso Robert Schumann e sua moglie Clara Wieck. L'amore per quest'ultima si trasformò presto in un vero e proprio amore platonico. Siamo quindi nel periodo più “romantico” per antonomasia per Brahms, un periodo in cui il compositore considerò il contenuto della propria opera più importante della forma. Non si può certo parlare di un capolavoro ma, indubbiamente, l'opera più significativa di questo primo periodo fu la “Sonata n. 3 per pianoforte in fa- Opus 5”. Il “secondo periodo” è rappresentato da tutte le opere composte prima del “Requiem Tedesco”. La sua caratterizzazione è anticipata da studi approfonditi del contrappunto che portarono Brahms ad una grande maturazione ed a rivolgersi ai modelli classici. Cominciò qui già ad evidenziarsi il suo stile “crepuscolare” e le sue opere si fecero sempre di più dolci, intime e meditative. Innumerevoli i capolavori di questo periodo a cominciare dalle “Quattro ballate per pianoforte Opus 10”, al “Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 Opus 15”, nato originariamente come sinfonia. Ma di questo periodo e sulle Variazioni su cui voglio un attimo soffermarmi perché le ritengo fra le più grandi di tutta la storia della musica. Iniziamo da quelle che ritengo le più collassali: le “Venticinque variazioni su un tema di Händel opus 24 ” che furono concepite nel settembre 1861. In generale per Brahms la sua conquista in questo genere consiste nel perfetto equilibrio tra il rigore classico della sua struttura e l'ispirazione assolutamente romantica, ricca di melodie e di soluzioni espressive. In questo caso, il brano da variare, è un'aria di Händel estrapolata dalla sua “Suite n. 1 da Leςons pour le clavecin” che qualcuno paragona, dal mio punto di vista con troppa severità, a quella del “Valzer di Diabelli”. Brahms partendo dalla lezione beethoveniana, da questo tema, crea un miracolo di stile, tecnica e invenzione, pur nell'osservanza rigorosa dei tratti armonici, ritmici e melodici del tema ispiratore. Si tratta di venticinque tessere musicali compiute e definite nella loro autonomia e, se il pianoforte non viene trattato da gratuite virtuosità, si toccano punte di difficoltà estrema e si può dire, a giusta ragione che, con esse, Brahms pose una pietra miliare nella storia della forma variata, collocandosi sulla scia delle “Variazioni Goldberg” di Bach e “Variazioni Diabelli” di Beethoven. Passo ora alle meravigliose “Variazioni per pianoforte su un tema originale Opus 21 n. 1” risalenti all'estate del 1856, un periodo della vita in cui il genio di Amburgo studiò il contrappunto degli antichi e, naturalmente, Bach in particolare. Come non notare anche qui la fusione della sua soggettività romantica con il rigore stilistico degli antichi maestri. Ma come non notare anche che la tecnica che provoca una specie di polverizzazione del tema è anche legata alla variazione amplificatrice di Beethoven. Le differenze rispetto al “gigante” sono nei procedimenti di scrittura, nella conduzione, nell'invenzione. Pensate che Clara Schumann nell'eseguirle a Lipsia affermò che il compositore si trovò in una condizione «Bach-beethoveniana-brahmsiana». Ma come non concludere questa piccola invasione nel campo della variazione brahmsiana senza parlare delle “Ventotto Variazioni su un tema di Paganini Opus 35” del 1862/63, un altro caposaldo del repertorio pianistico del genio d'Amburgo, vero e proprio contraltare di quelle sul tema di Händel: due temi agli antipodi, due mondi agli opposti, due finalità diverse ma con un unico personale linguaggio nell'affrontare i due impegni. Divise in due libri, anche in queste si ripresenta l'unione delle tre grandi B tedesche e, in particolare il pensiero a Beethoven, va ai due finali dei due cicli. Il “terzo periodo” iniziò con l’elaborazione del “Requiem Tedesco” e fu caratterizzato dalla massima combinazione dell’arte brahmsiana con lo spirito dei secoli precedenti attraversando tutta la musica che va dal Rinascimento attraversando il Barocco, il Classico, fino al Romanticismo. Il maestro amburghese raggiunse l’apice del progresso nelle risorse tonali e tutte le sue opere orchestrali e corali (a parte ovviamente il Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra) furono create in quegli anni. La concentrazione intellettuale e spirituale divenne il principio guida del suo lavoro; la sua espressione si fece densa e concisa e le sue composizioni guadagnarono in potenza e in tragicità. Non ho alcun dubbio nell'affermare che dopo il corpus delle nove sinfonie beethoveniane, il corpus delle quattro brahmsiane, sia il più importante della storia della musica sinfonica; queste composizioni appartengono tutte al suo “terzo periodo compositivo”. La “Sinfonia n. 1 Opus 68” ebbe una gestazione che andò dal 1855 al 1876. Questa sinfonia che molto retoricamente Hans von Bülow chiamò la “Decima sinfonia di Beethoven”, arrecando un danno notevole a Brahms e contribuendo ad accentuare quell’idea che lo dipingeva come compositore conservatore. In verità le cose stanno in maniera diversa. Le ultime grandi sinfonie composte prima di Brahms erano le ultime fatte da Mendelssohn nel 1842 e da Schumann nel 1851 che apparirono agli occhi dell’amburghese inadeguate rispetto al magistero formale e di scrittura orchestrale delle partiture beethoveniane, considerate esempi di assoluta perfezione. Brahms, di suo poi, visse sempre il momento di affrontare la Sinfonia, come un momento di soggezione nei confronti del suo grande predecessore. Questi furono i motivi che lo indussero a imprimere alla sua prima sinfonia una particolare attenzione all’elemento tematico e alla forma, che cercò di orientare nel senso di musica “pura”. Quello che però appare in essa intrinsecamente diverso fu il linguaggio, ricco di nuove modulazioni e calato in una realtà completamente diversa, più lirica e più drammatica tanto è vero che Giacomo Manzoni scrivendo di questa sinfonia e delle sue analogie con la “Nona” affermò: «Oggi per noi è già più difficile scoprire questa immediata continuità nell’opera dei due musicisti.» La “Sinfonia n. 2 Opus 73” fu composta nel 1877. Se per la prima si può parlare di modello beethoveniano per la seconda i modelli furono Mozart per la sua eleganza, Schubert per la sua freschezza popolare. La “Sinfonia n. 3 Opus 90”, composta nel 1883, rappresentò la svolta vera e propria di Brahms rispetto al passato e soprattutto verso Beethoven. Se il primo movimento è ancora legato all’idea di monumentalità beethoveniana, il quarto è ridotto nella dimensione “minore” della musica da camera. Infine la “Sinfonia n. 4 Opus 98” del 1885. Sempre Giacomo Manzoni su di essa così si espresse: «La Quarta è indubbiamente il capolavoro sinfonico di Brahms, e non a caso è anche l’ultima sinfonia; poiché in essa egli aveva raggiunto il massimo che nel quadro del sinfonismo romantico fosse possibile ottenere in quell’epoca e con quei mezzi che lui aveva a disposizione. Non per nulla proprio con la Quarta Brahms conclude decisamente il periodo del romanticismo musicale, facendo nascere dei problemi nuovi, dopo aver portato al massimo grado di espressione la tradizionale forma della sinfonia ottocentesca.» Sarebbe impossibile in un excursus, seppur breve, brahmsiano, non parlare dei suoi due concerti per pianoforte e orchestra che, appartengono il n. 1 al suo primo periodo e il n. 2 al terzo periodo compositivo. Fu fra il 1854 e il 1857 che fu composto il primo e, la sua genesi, fu costellata da tante incertezze e ripensamenti. Nacque prima come una probabile Sinfonia e solo in un secondo momento fu convertito in Concerto per pianoforte e da questo sta la sua fortissima impronta sinfonica: «(…) Non si valuterà mai abbastanza l’importanza dell’Opus 15 e della sua burrascosa trasformazione da una sinfonia in un concerto per pianoforte dal formidabile primo tempo drammatico e tempestoso, poi declinante in un garbato Adagio e in un anacronistico Rondò.(…).» (Massimo Mila) Fu poi fra il 1878 e il 1881 che Brahms compose il suo “Secondo Concerto per pianoforte e orchestra Opus 83” e la differenza è superlativa. Penso che le parole più giuste su questo concerto le abbia scritte Piero Rattalino: «(…) L’idea che apre la strada alla soluzione brahmsiana è di una genialità sconcertante; la sonorità complessiva (…) non è plasmata né su quella del pianoforte né su quella degli archi, ma su quella degli strumenti a fiato (…). La sonorità è “grigia” perché non possiede né la morbidezza pastosa degli archi né lo squilibrio aggressivo del pianoforte e degli ottoni: archi e pianoforte confluiscono nel termine intermedio, nella vibratile delicatezza degli strumentini e dei corni, ed il colore ha la traslucida oleosità della pennellata di un Leonardo. (…) è il più bello e perfetto di tutti i concerti per pianoforte e orchestra, il concerto dei concerti, il re dei concerti. (…) Brahms aveva donato alla letteratura pianistica l’opera suprema, Brahms era il creatore da cui bisognava partire per leggere a ritroso tutta la letteratura pianistica che nell’Opus 83 toccava il suo culmine.» Maestosità, autorevolezza varietà inesauribile dei registri, preziosità nei colori e nei timbri, equilibrio classico, ma anche poesia e altro ancora in questo Concerto di cui Franz Liszt – che non fu certamente generoso nei confronti dell'amburghese - scrisse in una lettera a Brahms: «(…) Mi sembra che possegga il carattere di rivelante opera d’arte, dove pensieri e sentimenti si fondono in nobile equilibrio.(...)». Nel 1890 Brahms considerò esaurito il suo lavoro col Quintetto in sol+ per archi Opus 111 ma, la primavera dell'anno dopo aver fatto testamento, egli riprese la sua attività compositiva entrando in quello che fu il suo “quarto periodo”. Il suo stile si fece ancora più grave più reticente e più naturale. Protagonisti di questo suo ultimo periodo furono il pianoforte e il clarinetto: opere che pur perdendo in freschezza rispetto al passato, acquistarono in forza spirituale e in potere creativo formale. Per questi due strumenti Brahms ci lasciò capolavori assoluti di bellezza e grandezza, a cominciare dal “Quintetto per clarinetto e archi Opus 115” del 1891 che, come asserì Claude Rostand, è «una grande rassegnata confessione, immersa in un'atmosfera piena di tenerezza». Ma che dire poi dei pezzi pianistici che seguiranno? Le “Sette fantasie Opus 116”, i “Tre intermezzi Opus 117”, i “Quattro Klavierstücke Opus 119”, tutti del 1892, i “Sei Klavierstücke Opus 118” del 1893, tutte meraviglie delle meraviglie; le sue “Sonata n. 1 per clarinetto e pianoforte Opus 120 n. 1” e “Sonata n. 2 per clarinetto e pianoforte Opus 120 n. 2” del 1894, anno che vide la scomparsa per Brahms di tanti cari amici: come non sentire in queste sonate il suo dolore? Dolore che trapela ancor di più nella sua opera-testamento i “Quattro vier Ernste Gesänge Opus 121” (Quattro canti seri) tratti dalla Bibbia nel 1896, anno della morte di Clara Wieck Schumann, dove la morte è vista come «è la sola via per ottenere la piena consapevolezza: per capire che l'amore è il sentimento più forte, l'esperienza più bella per un essere umano». (Arnold Whittal)
  11. Mio caro conterraneo, perdonami, ma la domanda che tu ci poni è ormai, dal mio punto di vista stucchevole. In questi anni, non so quante volte ho letto, ascoltato sull'argomento filologico o non filologico di tutto e il contrario di tutto. Ed io ancora una volta rispondo a tutti così: la musica colta va interpretata. La sua grandezza sta soprattutto nelle mani di chi lo fa! Lo faccia con strumenti d'epoca o con strumenti moderni, a me poco importa - anzi per nulla importa -. Ci sono interpretazioni filologiche meravigliose e ce ne sono altrettante non tali. Per cui, Antares, w la musica. w gli interpreti e soprattutto, in questo ambito W BACH! (Johann Sebastian naturalmente, l'unico!).
  12. Carissimi, purtroppo non ha ancora avuto un seguito questa discussione ed è un vero peccato. Forse perché Brahms continua, nonostante tutto e soprattutto nonostante la sua elevatissima grandezza ad essere "sconosciuto" e pregiudizialmente osteggiato. Forse anche perché avete voluto dare a questa discussione un'impronta molto tecnica che comporta A) la conoscenza molto particolareggiata del compositore e la conoscenza di quelle tecniche; tecniche a cui sicuramente, uno come me non può accedere, se non superficialmente anche se è vero che io non faccio molto testo. Forse questa discussione avrebbe più avuto ragion di vita nell'ambito della "Musica classica" dove, un brahmsiano come il sottoscritto avrebbe potuto più facilmente dire qualcosa. Ma...forse! Una cosa però voglio dirla ed è questa: il discorso di un Brahms continuatore di Beethoven è uno sbagliato retaggio dell'Ottocento che continuiamo a portarci dietro. Proprio anche per quei motivi che dice Gerardo ma anche più semplicemente perché Brahms nacque nel 1833 - e cioè 6 anni dopo la morte di Beethoven - e cominciò a comporre musica negli anni 50 dell'Ottocento. Solo questo dato anagrafico, di per sé, sarebbe più che sufficiente a dimostrare che la musica di Brahms non può essere conseguenziale a quella beethoveniana. Certo, in Brahms c'è anche Beethoven ma ...anche. Soprattutto c'è Brahms in tutta la sua grandezza e originalità!
  13. Caspita, non avevo fatto caso a quel quasi. Mi era proprio sfuggito. In realtà c'è una biografia di un italiano del 1998 che è molto bella e dettagliata ed è a quattro mani: Giorgio Vitale per la parte biografica e Stefano Catucci per le opere. Il problema è che uscì a fasicoletti con allegato cd in edicola per Il gruppo Fabbri. Ah dimenticavo! Poi c'è la mia! Ma per ora arriva solo al 1804. L'unico pregio che ha è che non costa nulla.
  14. Ciao Barbara! Io penso che sia una biografia da comprare, se non altro perché c'è in essa la bella e appassionante indagine - da vero capolavoro giallo - su chi fosse la reale identità dell'Immortale Amata. Detto questo, quello che Solomon scrive non va preso come oro colato, e non mi riferisco alla sola Amata Immortale. Varie sue interpretazioni psicologiche di Beethoven son assai discutibili ma, ripeto, è da leggere e studiare. Quanto a Baricco, la sua affermazione è datata probabilmente. Dal 2004 esiste una biografia beethoveniana di un italiano: Piero Buscaroli. Ma quella proprio non la consiglierei mai.
  15. Grazie innanzi tutto! Mi capita a volte di rimanere stupito per certe coincidenze. Ieri abbiamo parlato di Toscanini e oggi, Rai Storia, una delle più belle trasmissioni della TV e di Rai 3 in particolare, ha mandato in onda una puntata dedicata al Maestro di Parma. In realtà, del comportamento di Toscanini se ne fa solo un accenno e quello che interessa alla trasmissione – ovviamente – è il rapporto politico con Mussolini e il fascismo. Ovviamente ho pensato molto a Voi. Pensavo alle vostre affermazioni e soprattutto a questa di Paolo: «Io non sono dalla parte delle persone aggressive, anche se di valore.». Ma mi vengono in mente alcune affermazioni di Simone circa la valutazione della persona Toscanini. Ora, posso assicurarvi che se oggi non ci fosse stata questa puntata non avrei riaperto il discorso, ritenendolo, non esaurito, ma sufficientemente affrontato, pur rimanendo un po' perplesso – come del resto sarete Voi sulle mie – su alcune Vostre affermazioni. Se non l'avete vista, vi invito a vedere questa trasmissione, ancora una volta, non per farvi cambiare opinione, ma perché mi sembra importante comprendere bene come fosse complessa e sfaccettata la personalità di questo grandissimo uomo.
  16. Caro Simone, ancora una volta, devo rimarcare un concetto a me tanto caro: non si può giudicare le persone e i fatti con il senno del poi. In altre parole se noi decidiamo di discutere e di affrontare fatti e personaggi che non appartengono al nostro periodo storico, non possiamo farlo pregiudizialmente senza contestualizzare il tutto, nel tempo a cui ci riferiamo. È assolutamente ovvio che se oggi noi ci trovassimo di fronte ad un direttore d'orchestra che, per quanto grande, si comportasse come si comportò Toscanini, non potremmo che deprecarne l'atteggiamento. Ma il comportamento che Toscanini ebbe fra la fine del secolo XIX e la prima metà del XX ebbe una sua ragion d'essere. Con questo io non voglio scusare in toto il suo comportamento e far cambiare l'opinione a qualcuno sul direttore di Parma, voglio semplicemente mettere l'accento sull'importanza che la sua figura ebbe nell'ambito della direzione musicale, della fruizione della musica del passato e nel teatro più in generale. Toscanini fece parte di quella generazione di direttori che fecero da cerniera fra quelli dell'Ottocento che pensavano il loro principale compito fosse quello di far conoscere al pubblico composizioni a loro contemporanee o recenti e che fosse del tutto secondario la reinterpretazione dei classici e quelli del Novecento che invece, furono soprattutto interpreti del repertorio classico. Altra differenza fondamentale fu quella che riguardò la tecnica fisica, o tecnica della bacchetta, fondamentalmente funzionale nei direttori del Novecento, pressoché artificiale per quelli dell'Ottocento. Insomma, non si può prescindere dal fatto che Toscanini operò in mezzo ad una realtà musicale completamente diversa, non solo dall'attuale, ma anche da quella che ci fu dal dopoguerra in avanti. Ma Toscanini fu anche un grande riformatore, e forse ancora di più, nel teatro lirico. Attivò molti dei cambiamenti che furono suggeriti da Wagner e Verdi, e tutto questo ha ancora oggi una forte influenza sulla attuale prassi esecutiva del mondo dell'opera. Fu lui che per primo, al teatro regio di Torino e in seguito alla Scala, fece installare la fossa per l'orchestra. Fino a quel momento le orchestre eseguivano la partitura a livello della platea, cosa che poteva andare bene per la musica di tutto il primo Ottocento ma che altrettanto non poteva essere per quella delle ultime opere di Verdi e, praticamente tutte quelle di Wagner o di Richard Strauss. Il buio in sala fu una sua idea e questo per far sì che il pubblico si concentrasse fin da subito sul palco. Ma certamente la cosa più importante fu il sostenere che un'esecuzione non poteva raggiungere un alto livello artistico se già in partenza non esisteva un'unità di intenti tra tutti i vari protagonisti. È dunque in questo quadro che va valutata la sua figura ed anche i suoi comportamenti, certamente spesso molto duri e offensivi. Il processo logico interiore che portò Toscanini a decidere di sovvertire l'ordine costituito si scontrarono in lui con quelle che erano le caratteristiche innate del suo carattere: fu necessario dimostrare durezza per fare valere le sue idee, per dimostrare che faceva sul serio e che la sua intenzione prioritaria e assoluta era quella di modificare quel ferreo sistema in cui era costretto ad agire. Se noi diamo credito alle testimonianze di chi lo conobbe in giovane età, Toscanini fu un ragazzo assai timido e tranquillo e questo affermarono anche coloro che lo conobbero in età più avanzata. Fu solo dunque sul podio che avvenne la trasformazione della persona: una sorta di Jekyll e mister Hayde – mi si conceda questa metafora che mi piace sempre tanto – insomma. Fu l'importanza prioritaria e assoluta della musica, l'enorme passione, che lo trasformava. Un'importanza talmente soverchiante da renderlo pronto a qualunque cosa pur di scuotere il letargo e la routine. Fu a questo punto che si cominciò a parlare non soltanto della sua risolutezza e dell'assoluta intransigenza con cui respingeva i pareri che giudicava errati, ma anche dei suoi tremendi scoppi di collera contro i musicisti e gli organizzatori. Toscanini – che assomigliava, in questo, direi in tutto e per tutto a Beethoven – era completamente sicuro di sé stesso – e non affatto insicuro come tu ipotizzi – a tal punto da considerarsi un essere completo – e in un certo senso, come dargli torto visto i risultati – e per tanto si gettava anima e corpo con tutte le energie in suo possesso nel suo lavoro e non poteva capire e tanto meno scusare chiunque non facesse altrettanto. La sua concezione dell'arte-musica era talmente grande che per lui non era ammissibile accostarsene senza dare tutto del proprio essere. Ma non pensate che in privato nei suoi vari sfoghi di certi suoi comportamenti non si vergognasse No, tutt'altro, e su questo ci sono varie testimonianze. Ma inevitabilmente quando era sul palco, Jekyll prendeva il sopravvento: era capace di provare con pazienza ore e ore, quando sentiva che tutti lo seguivano e quando sentiva che davano il loro massimo, ma se solo sospettava che questa cooperazione non fosse al 100% diventava una belva. Spezzava le bacchette e le partiture, urlava, diceva parolacce, bestemmiava, scaraventava i leggii per la sala vuota e insultava a gran voce. Ora la domanda è: glielo possiamo perdonare? Io, caro Simone, direi proprio di sì e senza alcun dubbio. Per fortuna che c'è stato Toscanini se, no, gli altri, quelli che sono venuti poi dopo, forse ce li dovevamo dimenticare o comunque le cose sarebbero state tutte diverse. Ah Simone, io non sono di cultura e non ho studiato. Posso considerami solo uno che ama!
  17. Simone, francamente mi diventa molto difficile comprendere come si possa dire di un direttore d'orchestra che fu un modello di interpretazione esatta, certamente intransigente, che lesse le partiture con una precisione e fedeltà impressionanti e...potrei proseguire, che sia stato un pallone gonfiato - sinonimo di bolla di sapone - e ignorante. Si può dire che aveva un pessimo carattere sì, ma tutto il resto è fuori discussione.
  18. Ciao Frank! Penso che se, indubbiamente i due fortissimi con cui si apre l'Ouverture tragica di Brahms, sono assolutamente insoliti e che, in questo, sicuramente fanno pensare a Beethoven e nello specifico alla sua Overture Coriolan, sia comunque assolutamente sbagliata la critica di chi, nell'Ottocento disse che si trattava di una «brutta copia» dell'ouverture beethoveniana. Ma se trovo sbagliato questo giudizio, altrettanto trovo sia sbagliato quello di chi la considera, rispetto a quella beethoveniana, l'ouverture più tragicamente intensa. In realtà penso che la tragicità di Brahms sia diversa da quella di Beethoven, non titanica ma personale. Entrambe le Ouverture sono basate sulla forma-sonata. Ma se questo per Beethoven è l'occasione di dare un'ennesima meravigliosa dimostrazione di contrapposizione fra elemento maschile ed elemento femminile, la grandezza e la bellezza dell'Ouverture di Brahms va ricercata, come ha scritto Francesco Bussi: «(...) nell'originale archittettura (...) nella brillante vitalità dinamica, nella sovrabbondanza e venustà dei temi principali e sussidiari, questi nuovi o derivanti melodicamente o ritmicamente da quelli, gli uni e gli altri combinati ed elaborati con perizia contrappuntistica entro un'ampia esposizione che è, insieme, libero sviluppo.»
  19. E' bellissimo, mi sono commosso fino alle lacrime. Ho chiamato tutta la mia famiglia per vederlo.
  20. Premetto: quello che ora scrivo vuole essere una meditazione su ciò che avete ora scritto e non voglio sia inteso in altra maniera. Penso che chi decide di suicidarsi lo possa fare per tantissimi motivi che esulano dalla sua intelligenza o dalla sua stupidità. Chi decide di suicidarsi è una persona che prova tanti sentimenti contrastanti e che, tutto sommato, pensa non valghi più la pena di vivere. E' l'estremo atto di liberalità, di libero arbitrio, a cui un essere umano può anelare e, anche per questo - ma non solo per questo - merita il più alto rispetto da parte di chi rimane. Quando a suicidarsi è uno come Robert Williams per chi rimane e per chi lo ha ammirato e ha goduto del suo lavoro, resta un profondo senso di vuoto perché, un po' egoisticamente, pensa che avrebbe potuto darci ancora tanto. Tutto ciò è tutto estremamente e unicamente umano!
  21. Sì, Armando. Praga è una città meravigliosa ed, è una città piena di musica. Ad ogni chiesa e in tantissimi posti della città, puoi trovare qualcuno che suona. E se penso alle nostre grandi città mi rendo conto dell'abisso culturale in cui ci troviamo. Ma non bisogna mai rassegnarsi, la causa della musica merita che una persona ci spendi anche tutta la sua vita. E poi, Armando, è pur vero una cosa che noi, qui in Italia, abbiamo il sito virtuale di Beethoven più bello al mondo. Il merito è tutto tuo, naturalmente, che hai saputo creare sul lascito di Dominique, veramente qualcosa di grandioso per il Nostro che, detto fra noi, se lo merita tutto. Grazie!
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